È il momento di andare a donare sangue e plasma. Per la strada non c’è nessuno, non ci sono le solite code delle auto, non c’è gente né smog. Qua a Roma l’aria è calda e il cielo è azzurro. Nel piazzale davanti al centro trasfusionale del policlinico Umberto I, una decina di persone attendono sparse il proprio turno. C’è chi legge Hemingway, chi parla al telefono con le cuffie e chi si gode il sole primaverile.
In questi giorni in cui tutti sono chiusi in casa, tante persone hanno voluto rispondere all’emergenza sangue, causata dalla paura dell’epidemia di coronavirus. Sono riunite all’aperto, a distanza di sicurezza. Aspettano di poter entrare per donare godendosi l’aria fresca. Anche con le mascherine. Il solo fatto di essere lì, in tanti in fila per rispondere all’emergenza della crisi di sangue, ci fa sentire partecipi di una comunità composta da persone attente al prossimo. L’atmosfera è positiva e solidale.
Fabrizio attende il suo turno con le cuffiette collegate allo smartphone. Ha 31 anni, è specializzando in radiologia: “Ho saputo dell’emergenza perché me lo ha detto un collega di radiologia, che ha parlato con un anestesista…”. Lo precede Erica, futura dottoressa in neonatologia: “Me ne hanno parlato nel gruppo whatsapp della tesi“. Sono una decina le persone che li precedono nella coda, l’ultima dista circa trenta metri. Davanti a Erica, c’è Costanza, di 25 anni, anche lei studentessa di medicina: “I rappresentati degli studenti universitari della facoltà, hanno parlato con i professori, che hanno rivolto a noi un vero appello”. Giorgia invece racconta: “Un’amica di un’amica, un’insegnante di matematica mi ha detto dell’emergenza. Non ho mai donato prima d’ora – aggiunge – ma una volta mi hanno detto che non potevo donare. Adesso però c’è una forte necessità, perciò ci riprovo”.
Federica ha 29 anni, anche lei studia medicina ed è donatrice regolare: “Ho cominciato quando avevo 18 anni, quando una mia amica ha avuto un brutto incidente”. Chiara, aspetta serafica, è assistente sociale della Croce Rossa: “Anche se ci sono stati piccoli problemi rispetto alla distribuzione delle mascherine, ho estrema fiducia nel sistema sanitario, stiamo affrontando bene la situazione”. Passa un ragazzo in tenuta da lavoro. Sovrappensiero faccio per stringergli la mano, lui fa un sorriso e un passo indietro. Si chiama Doriano, lavora nel centro trasfusionale: “Mi raccomando le distanze di sicurezza”, mi saluta ed entra nell’edificio. La fila all’aperto va avanti, procede veloce.
Intanto scopro che si chiama La Rosa uno dei professori dell’università che ha parlato agli studenti di medicina invitandoli a donare sangue, che ha raccolto tante adesioni. L’insegnante ha spiegato loro l’entità dell’emergenza: in questo periodo manca sangue, plasma e piastrine, sia per le trasfusioni dei malati, che ricorrono regolarmente alle terapie, che per gli interventi chirurgici.
Un operatore del centro, con la mascherina, fa capolino dalla porta per entrare nell’edificio e chiede: “Chi è il prossimo?”. E’ il mio turno. Mi misurano la temperatura nell’orecchio con un termometro. Va tutto bene, posso entrare. Posso donare.