La terapia al plasma iperimmune, in attesa del vaccino per il nuovo Coronavirus, è tra quelle su cui in questo momento sta puntando con più determinazione la comunità scientifica. Già nei giorni scorsi, su DonatoriH24, abbiamo raccontato che la sinergia più forte tra comunità scientifica e aziende farmaceutiche e sanitarie è partita in Italia, con l’annuncio da parte di Kedrion di una terapia utilizzabile sui pazienti ospedalizzati in un arco di 3-6 mesi, base di partenza per un successivo ampliamento alle categorie più a rischio.
Naturalmente il percorso sarà complesso, come hanno spiegato su Buonsangue Gianpietro Briola (presidente di Avis Nazionale) e Giancarlo Liumbruno (direttore del Centro nazionale sangue) ma i risultati arrivati dai primi utilizzi, prima in Cina e poi in Italia grazie al protocollo sviluppato in Lombardia con il San Matteo di Pavia, confermano le sensazioni positive.
Il plasma può quindi essere la materia biologica primaria da usare come arma d’emergenza per contenere il numero di malati gravi da Coronavirus. Oggi la terapia è sperimentata in oltre dieci paesi nel mondo, tra cui gli Stati Uniti, ma già a metà febbraio, l’Oms l’aveva indicata come una tra le cure più valide in mancanza di farmaci efficaci e di vaccini.
Quello che in molti ignorano, è che questo tipo di terapia in realtà è un ritorno all’antico. Con una storia molto affascinante. Perciò abbiamo chiesto al professor Fabio Zampieri, associato di Storia della Medicina dell’Università di Padova, di ripercorrere per noi la vicenda delle terapie basate sul plasma iperimmune.
Professor Zampieri, a quando dobbiamo risalire? Quando è stata la prima volta in cui la terapia che utilizza il plasma e il sangue iperimmune per infonderlo nei malati è stata utilizzata?
“I primi tentativi di neutralizzare una malattia attraverso delle infusioni di sangue e plasma sono stati effettuati sugli animali nel 1890. I primi ad avere sperimentato l’utilizzo del sangue contenente gli anticorpi della malattia su animali sani che venivano esposti al contagio, furono due scienziati in Germania. Il primo, fu il fisiologo che nel 1901 vinse il premio Nobel per la medicina con la scoperta della cura alla difterite, Emil Von Behring, il secondo Kitasato Shibasaburō, batteriologo e fisiologo giapponese.
Kitasato e Von Behring nel 1880 avviarono due progetti gemelli con i quali infondevano il plasma con anticorpi negli animali. Uno sulla cura del tetano e l’altro sulla difterite. Negli esperimenti iniettavano nei topi sani, il siero dei conigli immunizzati alla malattia. Questi esperimenti dimostrarono l’efficacia della sieroterapia. In questo modo ci si rese conto che per ogni singola patologia era necessario un plasma contenente gli anticorpi capaci di resistere allo specifico patogeno”.
Quando si passa sugli esseri umani?
“La prima importante applicazione avvenne durante l’epidemia di spagnola nel 1918, la più grande pandemia della storia, che uccise decine di milioni di persone in tutto il mondo”.
E più di recente?
“L’ultimo tentativo, molto recente, di cura attraverso la terapia al plasma iperimmune è avvenuto con l’epidemia di ebola nel 2015. L’Organizzazione mondiale della sanità ha approvato questo metodo di cura, indicandolo come uno dei più validi per il contenimento della patologia. Prima di allora con la Sars nel 2002 e la sperimentazione nei pazienti immunodepressi colpiti da HIV negli anni ’90. Le immunoglobluline sono state usate per curare pazienti affetti da pertosse in una sperimentazione negli anni ’70, per la cura del morbillo o da pneumococco negli anni ’40 e ’50, mentre negli anni ’20 per la scarlattina”.
Eppure fino ad oggi questo tipo di terapia in Italia sembra non aver suscitato l’entusiasmo della comunità scientifica.
“La letteratura scientifica dice che mancano degli studi clinici ampi, su un gran numero di individui che determinino l’utilità e l’assenza di rischi della terapia. Sicuramente la terapia al plasma iperimmune è considerata un approccio empirico alla cura delle malattie, cioè non sappiamo ancora bene come funzioni. Possiamo notare che anche oggi, con la diffusione del Covid-19, continua ad essere presentata dai medici come una cura per guadagnare tempo ed evitare di arrivare all’aggravamento della condizione del paziente, qualcosa che si usa solo in casi di emergenza. La sieroterapia non ha avuto modo di svilupparsi adeguatamente e la cura non è mai stata sottoposta alla serie di test necessari per farle acquisire la rilevanza che invece meriterebbe”.
Secondo lei perché la branca della medicina che studia la sieroterapia non ha avuto lo sviluppo necessario utile a certificare questo tipo di cura?
“Potrebbe essere dovuto al successo degli antibiotici e dei vaccini, e dei farmaci antivirali in generale. Queste opzioni terapeutiche nella lotta alle malattie che si sono presentate nel corso della storia, si sono dimostrate molto efficaci e hanno spostato l’attenzione, offrendo dei risultati sorprendenti.
Quando si torna in un’ottica di lungo termine, il vaccino è considerato la soluzione del problema e la terapia con il plasma iperimmune è rimasto un tema poco approfondito. Anche se questa terapia sembra semplice, necessita di strumenti, e studi clinici e molecolari di ampia portata che hanno un costo rilevante”.