Giornata nazionale delle vittime Covid-19. Ricordare per migliorare il sistema

2021-04-07T11:15:41+02:00 19 Marzo 2021|Attualità|
donare Covid di Laura Ghiandoni

È trascorso un anno da quando l’epidemia ha travolto la vita di tutti, conducendo nei reparti ospedalieri decine di migliaia di persone affette da Covid-19.

Da circa un anno l’instancabile lotta di medici, ricercatori e infermieri per tentare di curare i pazienti non è mai terminata e continua tutt’oggi con la terza ondata epidemica.

Per questo durante la Giornata nazionale in ricordo delle vittime di Covid-19, istituita il 18 marzo, è necessario porre l’attenzione non solo sul filo rosso che unisce donatori e pazienti, ma sull’impegno di tanti medici e pazienti nei reparti ospedalieri, per garantire le cure necessarie a loro rischio e pericolo.

Il 18 marzo, Giornata nazionale in ricordo delle vittime di Covid-19

Oggi solo in Italia sono 103mila le persone che ci hanno lasciato colpite da Covid-19, nello stesso periodo circa 2,64 milioni di persone sono guarite e 3,28 milioni si sono ammalate.

Tanti hanno provato l’esperienza di perdere una persona cara a causa del virus, tanti hanno sperimentato cosa significhi essere un paziente affetto da una patologia così ostica quando arriva in forma grave.

Il sistema sanitario per un anno è stato messo duramente alla prova mostrando impietosamente le tante lacune e i punti di forza.

Con DonatoriH24 abbiamo cercato quanto possibile nel corso di questo anno di far emergere le storie più drammatiche e urgenti, a volte vivendo il dramma dell’epidemia con gli occhi dei donatori nelle prime zone rosse lombarde, a volte con quello dei pazienti affetti da patologie rare e non diagnosticate.

Le associazioni di donatori non hanno fatto mancare la propria vicinanza al Paese mettendosi a disposizione a sostegno del sistema sanitario in diverse occasioni: dai test sierologici alle sedi offerte recentemente per la somministrazione dei vaccini.

Per questo proprio il drammatico numero di vittime di Covid-19 – questa condizione che ha portato via tanti dei nostri cari – oggi richiederebbe da parte di chi oggi incarna la sfera decisionale del Paese, l’impegno a migliorare la situazione.

Il filo rosso tra medico e paziente: le parole di Fiorin, presidente Simti

Ma il sistema sanitario italiano non deve fronteggiare soltanto il Covid-19. Altre criticità non mancano. Qualche mese fa abbiamo anche parlato della carenza di professionisti della salute che influenzava pesantemente la qualità delle terapie ematiche offerte ai pazienti talassemici e con patologie del sangue nei reparti trasfusionali.

Francesco Fiorin, presidente della Società Italiana di Medicina Trasfusionale e Immunoematologia, ci racconta se qualcosa è cambiato nell’ultimo periodo di epidemia, quando anche la raccolta di plasma iperimmune ha richiesto uno sforzo in più a questo tipo di personale medico.

Vittime Covid-19

Francesco Fiorin, presidente Simti

“Non ci sono novità. Il personale dei centri trasfusionali prima era scarso, ora è andato in sofferenza – e ancora peggio – molte aziende hanno bloccato le ferie di tutto il personale soprattutto negli ospedali Covid-19”.
Fiorin continua: “Non ci sono stati nuovi ingressi negli ospedali se non sporadicamente. I concorsi sono sempre pochi, le persone che partecipano ai concorsi sono sempre meno. La domanda degli ospedali è tanta e l’offerta di personale specializzato è poca”.

Lecita è la domanda: perché questa grande contraddizione in un paese dove la disoccupazione è un problema di primo piano? Il caso del trasfusionale, spiega Fiorin, riguarda in particolare la questione della formazione: “Non ci sono specialisti perché la medicina trasfusionale non ha una specialità – racconta il medico – non esiste un percorso strutturato di formazione in medicina trasfusionale che sia riconosciuto dallo stato e che sia requisito per un accesso ad un concorso”.

Fiorin, infine, spiega anche qual è l’istituto incaricato di preparare i medici, poi delinea una soluzione per prevenire la penuria: “È il Miur che dovrebbe cominciare a prevedere una scuola di medicina specifica per i trasfusionisti oppure decidere se fare come si faceva una volta, quando la formazione all’interno degli ospedali veniva riconosciuta come specializzazione”.