Sono Anna Maria, sono un medico e sono un donatore. Che bella parola “donatore”. Il sangue è vita, è gratis, è tuo perché io ne ho un po’ di più e tu ne hai bisogno per stare meglio, per guarire.
Ho iniziato a donare a 18 anni, quando avevo già deciso che volevo diventare medico e questo era il mio primo gesto di cura. Anche i miei genitori erano donatori, anche il mio compagno di vita è stato donatore.
Che bella la giornata della donazione, con i suoi riti, i sorrisi degli abituali, l’emozione dei nuovi, il sapore della brioche dopo.
Poi il piacere di “metterci la faccia” quando spiego al paziente che deve essere trasfuso che quella sacca lì potrebbe anche essere la mia, che sono sicura che è controllata, perché chi l’ha donata lo ha fatto volontariamente e gratuitamente.
Poi è arrivato il COVID. Tutto ruota attorno a questa spaventosa e bastarda malattia. Gente che sta malissimo ma è lucidissima e che avvolte ha bisogno di sangue. Devi spiegare e ottenere il consenso alla donazione senza contatto, bardato come un marziano, con il dubbio che anche il modulo possa trasmettere il virus. Il modulo firmato in camera e passato al collega sulla porta che ti aspetta con una busta trasparente. E si va avanti, cercando di vincere la paura che ti prende se ti viene un colpo di tosse. Poi dopo un tampone e quattro sierologici negativi, si torna a donare. Devo dire che la quarantaduesima donazione è stata più emozionante della prima perché è stata il segno di un nuovo inizio.