Guardare fuori dai confini nazionali ogni tanto fa bene. Soprattutto per capire che il nostro Paese, così criticato per tante buone ragioni, in alcuni campi è un’autentica eccellenza, e ovviamente in questo caso non parliamo né del patrimonio artistico né di quello ambientale, e neanche del food. No, parliamo del sistema di raccolta del sangue e del plasma.
Stavolta è un servizio del Tg2 (a firma di Gianmarco Sicuro e visibile in basso), a far risaltare una volta di più le differenze tra un sistema – quello americano – da cui dipende il 70 per cento della produzione mondiale di plasma, e quello italiano, che funziona bene e punta all’autosufficienza, anche se autosufficiente ancora non è. Dunque quali sono le differenze? Basti dire che la raccolta italiana vive sul volontariato, mentre quella americana vive sulla “donazione a pagamento”, che quindi della donazione ha assai poco e che forse sarebbe più opportuno definire come una “prestazione”.
65 dollari ogni cinque prelievi: questa è la remunerazione che – ha ben spiegato il Tg2 – viene corrisposta a chi, negli Usa, decide di “donare”, magari sottoponendosi anche a trasferte oltreconfine, come nel caso di Maria, la donna messicana protagonista del servizio, che due volte a settimana attraversa la frontiera per lasciare il proprio plasma alle case farmaceutiche americane.
Il sistema italiano si fonda invece sui donatori volontari, che sono quasi due milioni. Una comunità numerosa, che rappresenta un autentico patrimonio del Paese ma del quale in molti ignorano l’esistenza. Ognuno di noi, in caso di necessità, si aspetta di trovare sangue e plasma a disposizione. Così come, in molti casi, ci curiamo con i plasmaderivati, medicinali salvavita o fondamentali per le malattie rare. Ma quanti di noi si chiedono come tutto questo sia possibile? La risposta è piuttosto semplice: perché esistono i donatori, e con loro le diverse associazioni, e tutto un mondo fatto di persone che a vario titolo lavorano in questo settore.
È quindi comprensibile che un servizio come quello del Tg2 susciti grande attenzione in associazioni come Avis e Fidas, offrendo loro il destro per ribadire alcuni concetti fondamentali.
“Cogliamo l’occasione per invitare tutti coloro che sono in buono stato di salute a donare il plasma” – dice Giovanni Musso, presidente Fidas – “Il nostro Paese è infatti dipendente dall’estero per l’importazione di medicinali plasmaderivati che in molte occasioni rappresentano un vero e proprio farmaco salva-vita per tanti pazienti. Gli Stati Uniti sono il primo produttore di plasma in aferesi e da soli soddisfano il 71% della richiesta mondiale del plasma. In questa prospettiva risulta evidente quanto sia importante incrementare il numero dei donatori di plasma presenti in Italia al fine di garantire una più alta qualità del plasma raccolto”.
Sullo stesso tasto batte anche Gianpietro Briola, presidente di Avis, il quale mette in evidenza anche l’aspetto della sicurezza. “Storie come queste – dice Briola riferendosi al servizio del Tg2 – al di là delle difficoltà a cui umanamente siamo assolutamente vicini, devono servire a ribadire ancora una volta perché il sistema trasfusionale italiano debba essere considerato un modello. Poter contare su una scelta volontaria e non remunerata non rappresenta solo un valore etico, ma una garanzia di qualità del plasma donato e di sicurezza per lo stesso donatore. Donare il plasma, come nel caso della signora in Messico, due volte alla settimana per superare le 100 donazioni in un anno, è un’azione molto pericolosa non solo per la qualità del plasma che viene raccolto (che rischia di perdere le sue proprietà principali), ma per la salute stessa della signora così come di tutte le altre persone che compiono il suo gesto. Tanto più in riferimento al plasma iperimmune contro il Covid”.