Evitare infusioni per garantire una coagulazione del sangue uguale a quella degli altri e migliorare, così, la qualità della vita. È l’obiettivo del primo trattamento di terapia genica avvenuto in Italia su un paziente con emofilia A grave, concluso nei giorni scorsi al policlinico di Milano.
La tecnica sperimentata permette di sfruttare i virus resi innocui, come i trasportatori di dna, per correggere un difetto genetico. Questo perché nei pazienti emofilici il dna presenta errori che non permettono di produrre i fattori utili alla coagulazione (ecco il perché delle infusioni continue), la cui funzionalità viene invece ripristinata attraverso la terapia genica. Delicata e complessa, è già impiegata per trattare altre patologie come la cosiddetta malattia dei “bambini in bolla” (una forma rara che rientra nel gruppo delle immunodeficienze combinate gravi e che comporta una grave compromissione del sistema immunitario che lo rende incapace di difendersi da qualsiasi infezione), ma è la prima volta che viene testata per curare l’emofilia.
A oggi per contrastare questa patologia ereditaria, dovuta alla carenza delle proteine utili alla coagulazione (il fattore VIII nel caso di quella di tipo A e il fattore IX in quella di tipo B), e prevenire i sanguinamenti, sono necessarie costanti infusioni dei fattori che possono essere ricavati dal plasma di un donatore oppure ricombinati. La loro somministrazione, oltre a evitare emorragie, serve per preservare le articolazioni, ecco perché è necessario sottoporsi anche a tre infusioni a settimana per tutta la vita. Questo spiega come la terapia genica possa rappresentare una svolta proprio in ottica di un miglioramento della qualità della vita dei pazienti interessati.
Entro il 2031 l’intero sistema sanitario mondiale potrebbe assistere a un cambiamento storico, visto che dovrebbero essere lanciate tra le 60 e le 80 nuove terapie cellulari e geniche utili a curare circa 50mila pazienti all’anno, per un totale di 350mila persone. Un modello per accogliere questo tipo di innovazioni è stato proposto dall’Altems (l’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari) dell’università cattolica del Sacro Cuore di Roma. Lo studio ha valutato l’impatto che la terapia genica, approvata nei mesi scorsi in Europa, ha sulla beta talassemia. Circa l’80% dei pazienti esaminati da una ricerca americana, infatti, non dipenderebbe più dalle trasfusioni, un risultato che comporterebbe un risparmio non indifferente per il sistema sanitario. A fronte tuttavia dell’elevato costo della terapia che, l’Altems, proporrebbe di non pagare in un’unica soluzione al momento della somministrazione, ma di spalmare nell’arco dei cinque anni successivi: con l’intesa che, se la cura non dovesse funzionare e il paziente fosse costretto a tornare alle trasfusioni, il pagamento verrebbe interrotto.
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