I donatori raccontano/ «Così in caserma
il maggiore medico mi arruolò»

2018-05-07T13:45:39+02:00 7 Maggio 2018|

di Manuele Jorio*

Sono passati oltre dieci anni dalla mia prima volta. E’ stata un’occasione che ha unito caso ed opportunità. Sono diventato donatore di sangue nel 1996, mentre svolgevo il servizio di leva (eh sì, c’era ancora il servizio militare, verrà abolito dopo qualche anno!).

Ero in una delle tante caserme della Cecchignola, che ancora oggi a Roma è una sorta di cittadella  militare.  A causa di un piccolo infortunio durante l’addestramento venni spedito in infermeria. Per chi non ha fatto questa esperienza, durante il servizio militare andare in infermeria per una banalità era causa di gioie e dolori.

Gioie perché ci si riposava e non si svolgeva nessun servizio. Per qualche giorno godevi di una sorta di immunità dal pulire i bagni, fare le guardie notturne, spazzare gli enormi piazzali, e varie amenità militaresche noiose per chi come me non ne faceva certo una professione.

Dolori perché durante una qualsiasi malattia non godevi della libera uscita, e quindi restavi chiuso in caserma finché l’ufficiale medico non ti riteneva guarito. E la cosa, ad esempio per una banale influenza, poteva andare per le lunghe: per varie ragioni, spesso inspiegabili, era difficile guarire in caserma, ed anche attendere la visita di controllo poteva richiedere molto tempo.

In quella caserma c’era un maggiore della sanità, oggi non mi ricordo il nome, burbero sulle prime ma in realtà affabile, che mi prese in simpatia. Era una giornata tranquilla; una volta applicato il ghiaccio sulla contusione, avviò un’amabile conversazione sull’essere utili agli altri, e cercò di tirarmi su; in quel momento mi sentivo infatti abbastanza  affranto, bloccato nella cosiddetta “naja”, il servizio di leva.  Tra gli argomenti utilizzati per risollevarmi il morale, mi chiese se non volessi donare il sangue. Ero un po’ confuso sull’argomento. Non ne sapevo nulla, nessuno nella mia famiglia o tra i miei amici lo era stato. Il maggiore medico fu così affabile e tranquillizzante che in un minuto mi ritrovai da contuso a donatore di sangue (la prognosi era la stessa, un giorno di riposo, ma ahimè, come da prassi, senza libera uscita).

Un soldato infermiere mi fece la tessera del policlinico militare con il mio gruppo sanguigno e fu così che donai un’altra volta prima della fine del servizio di leva. Una volta congedato per diversi anni mi dimenticai della donazione di sangue. Poi un giorno sentii un appello a donare in TV; fu durante il terremoto dell’Aquila del 2009. Scoprii che vi era  un centro per donare il sangue in un complesso ospedaliero, il San Camillo di Roma, a pochi passi da casa mia e tornai a farlo.

E così è diventata un’abitudine. Una sana abitudine, perché tengo sotto controllo i valori del sangue, che mi inviano a casa dopo una settimana. Un impegno che con un piccolo fastidio e poco tempo, mi fa sentire utile. Poi, nel centro dove vado, c’è un’ atmosfera simpatica, rilassata. Ho conosciuto negli anni il personale sanitario e durante il prelievo faccio battute, scambio due chiacchiere, dopo aver donato mi bevo un cappuccino e senza neanche accorgermene devo andare. Purtroppo anche in questo caso come al servizio militare, torno al lavoro senza libera uscita, ma questa è un’altra storia…

*Manuele Jorio è psicologo e psicoterapeuta a Roma

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