Plasma a pagamento o volontario, dissidi interni all’associazione, impegni e obiettivi per il suo nuovo mandato: Gianpietro Briola, neo presidente di Avis nazionale, racconta e si racconta a Donatorih24. Lo intervistiamo che è in ferie, in un momento in cui cerca di «riorganizzare» la sua vita. «Non me l’aspettavo – ci dice – L’elezione alla presidenza è stata una novità che mia ha fatto molto piacere, ma non era scontata. Ora devo riorganizzare i miei tempi.
La sua elezione arriva dopo le dimissioni dell’ex presidente dovute a un forte confronto interno. Oltre alla questione Campana, queste divergenze sono ricollegabili anche a visioni diverse del sistema trasfusionale italiano?
Io credo che in prospettiva ci siano visioni diverse, soprattutto per quanto riguarda l’emoderivazione e la plasmaderivazione in rapporto all’industria. Di fondo avevamo visioni differenti delle strategie da mettere in campo in un sistema che deve essere nazionale ed etico e che, attraverso l’industria, deve poter produrre tutto quanto possa essere tratto dal prodotto senza scegliere quali siano i prodotti che fanno più mercato. Sapendo che l’Italia comunque non riuscirà mai a essere autosufficiente a livello nazionale, dovremo fare coesistere due modalità parallele: dovremo continuare con le donazioni etiche ma è importante restare su un mercato per quella quota di prodotto che ci manca. Ciò perché restare sul mercato ci permette di avere una costanza nell’accesso al prodotto e quindi un controllo del suo prezzo. Questo mantenendo due paletti ben saldi: un servizio trasfusionale nazionale e l’eticità della donazione. Altrimenti il rischio è andare incontro alla donazione di plasma a pagamento, oppure arrivare a cedere all’industria la raccolta del plasma lasciando alle associazioni e agli ospedali solo quella del sangue intero, eventualità non accettabili.
Ci può fare qualche esempio rispetto alla coesistenza di sistema etico e mercato?
Il mercato e le sue ricchezze sono fluttuanti. Un esempio è ciò che è avvenuto qualche mese fa: io lavoro in ospedale e abbiamo avuto qualche problema con il rifornimento delle immunoglobuline per il tetano: non ci veniva consegnata la dose da cinquecento, o dovevano reperirla sul mercato estero. Quindi se in casi come questo si va ad accedere su un mercato su cui non si accede mai, è ovvio che non si riesce a contrattare un prezzo congruo. Ciò vale per tutti i prodotti.
Passando alle questioni più strettamente interne all’Avis, tra gli obiettivi dei suoi primi cento giorni c’è l’unitarietà associativa. Come raggiungerla dopo gli accesi confronti avuti?
Unitarietà per me non significa unitarismo su tutte le problematiche, ma confronto aperto sui temi in discussione e sulle strategie per poterli risolvere. Come associazione dipendiamo da un’organizzazione interna, ma siamo in rapporto costante con il sistema sanitario italiano che purtroppo o per fortuna è fatto da tanti sistemi sanitari regionali, e delle province autonome: ognuno si organizza come vuole. Mettere tutti insieme è davvero complesso. Dobbiamo trovare modalità operative salvaguardando la figura centrale del donatore che deve essere comunque sempre in condizione di dare sangue quando serve seguendo una programmazione regionale ma anche nazionale nel rispetto delle esigenze del malato. L’unitarietà va quindi ricercata negli strumenti con cui insieme decliniamo l’autosufficienza e la gestione del donatore.
Un esempio?
La prima cosa che ho in mente è una conferenza programmatica che veda assieme Avis nazionale, realtà regionali e altre parti del sistema trasfusionale riflettere su dove stiamo andando e come ci vogliamo andare. Poi c’è la revisione del nostro Statuto.
Al di là delle modifiche dovute alla riforma del terzo settore, ci sono altri punti da rivedere?
Sì. Il nostro Statuto è vecchio di 15 anni, la società è cambiata e quindi lo Statuto presenta diversi limiti. Per esempio nella gestione interna dell’associazione, intendo dire nei rapporti tra i vari livelli associativi. Dobbiamo riuscire a combinare insieme l’autonomia gestionale e di responsabilità di ogni sezione e di ogni livello associativo con un rispetto dell’obiettivo comune.
Come?
Oggi lo Statuto limita la possibilità di intervento da parte dei livelli superiori rispetto agli inferiori. Quindi se ad esempio una sezione Avis comunale va secondo criteri che non sono quelli che sono stati decisi, noi possiamo solo ricordare ai responsabili che possono essere allontanati dall’associazione, ma in verità non abbiamo alcun potere di intervento diretto. Dobbiamo trovare modalità che ci permettano di essere più incisivi, per esempio per poter vedere i bilanci, esercitare un controllo maggiore. Certo, il rischio è che si crei un controllo coercitivo, un rischio che va eluso attraverso una riflessione congiunta. Non possiamo però permettere che ogni realtà territoriale vada per conto suo.
Qual è la difficoltà del suo mandato che la preoccupa di più?
Essere arrivati in un momento complesso e dover lavorare per tenere insieme l’associazione sui valori e sui principi fondanti: solidarietà, rispetto di ogni singolo associato e del malato. La difficoltà vera è quella che abbiamo riscontrato in questi anni: il calo del numero dei donatori e del numero delle donazioni. Un calo dovuto all’organizzazione del sistema sanitario e da un problema più generale della società, come il calo demografico, dei valori e del significato di comunità. Il sistema sanitario tende a lavorare in economia lasciando agli ospedali la possibilità di decidere di prelevare (plasma, sangue, ndr) solo ciò che serve alle loro esigenze e questo crea delle gravi difficoltà a livello nazionale. Ma noi non dobbiamo dimenticare che siamo un’associazione di volontariato e come tale tra i nostri fini abbiamo quello di diffondere il concetto della solidarietà, del buon vivere comunitario e dei buoni comportamenti della cittadinanza attiva. Si tratta di un obiettivo molto importante. Dobbiamo tenere aperti i due fronti: trovare donatori e motivarli, ma fare trovare ai donatori anche un sistema sanitario che gli accolga, li consideri per il ruolo che hanno e li conservi.
Seguendo il suo discorso, ritiene quindi che aprire al mercato del plasma per esempio usando plasma a pagamento, possa demotivare i donatori?
Sarebbe la demotivazione assoluta del donatore. Per noi il donatore deve avere come finalità e come riconoscimento il fatto che la donazione sia etica. Altrimenti abbiamo tradito il nostro ruolo. Ciò che ci ha fatto grandi fino ad oggi e ci ha permesso di arrivare a un milione e 300mila volontari è che abbiamo condiviso sul territorio una solidarietà e un modo di stare insieme che va ben oltre la donazione di sangue.
La sua elezione ha portato già delle novità nell’associazione come l’ufficio di presidenza allargato, lo ha voluto lei?
Sì l’ho deciso io. Un modo per avere maggiore supporto e disponibilità a lavorare su temi specifici. Inoltre, i tre che sono stati inseriti sono tre giovani: un modo in più per motivare i nostri ragazzi e ricordare loro che hanno una professionalità da spendere. Daniele Ferrara è un avvocato penalista, Claudia Firenze ha un master in comunicazione, Antonino Calabrese è un insegnante di educazione fisica giovane che si occupa da molto tempo di giovani e di sport.
Anche la vicepresidenza a una donna è una novità rispetto all’ultimo mandato.
È una novità dovuta, non per il concetto delle quote rosa visto credo che se giochiamo sulle percentuali non arriviamo da nessuna parte, ma per rispetto alla presenza femminile all’interno dell’associazione. Una presenza tradizionalmente limitata dal punto di vista dei numeri perché le donne donatrici sono da sempre di meno, ma alle quali si deve pari dignità. Le donne hanno un modo diverso di affrontare la società e a volte hanno esigenze diverse, dobbiamo ascoltarle e dare loro il massimo rispetto e massima visibilità.