La rete italiana del volontariato si basa sulla cultura della solidarietà che caratterizza il territorio da nord a sud, un tessuto invidiabile che prende forma in concomitanza con eventi speciali, momenti di celebrazione che uniscono e richiamano i valori della comunità. La 24 Ore del donatore Fidas, manifestazione sportiva ormai “storica” di una delle principali associazioni di donatori di sangue italiane, è uno di questi eventi, anche perché è simbolica di uno dei principali valori di Fidas: lo stile di vita sano.
Per conoscere da vicino cosa significa vivere dal di dentro un momento di unione così speciale, abbiamo intervistato Chiara Donadelli, Presidente di Fidas Verona, che ci ha raccontato cosa c’è dietro l’organizzazione e perché è importantissimo mantenere viva la coscienza del dono su sangue intero e plasmaderivati.
Chiara Donadelli, la 24 Ore del donatore Fidas è un evento ormai storico per la promozione del dono del sangue in periodo estivo, cosa si prova a organizzare un evento così bello? Ci descrive le emozioni e il suo vissuto intorno a questa festa?
«Non è stato semplice organizzarla in tempi incerti come quelli che stiamo vivendo. Però è prevalsa la volontà, da parte di tutti i nostri volontari, di farla. Ed è andata benissimo. Avevamo bisogno di tornare a promuovere il dono in presenza e di ritrovarci. Ora ripartiamo con un entusiasmo ancora maggiore: eventi come questo, incentrati sull’incontro personale, hanno una marcia in più. Da un lato, rendono ancor più efficace la promozione, dall’altro rinvigoriscono la squadra, perché si respira una gioia e una condivisione che nessuno schermo di computer può restituirci».
Per noi di Donatorih24 la 24 ore del donatore è la sintesi perfetta del legame tra dono del sangue e vita sana. Fidas investe molto su questi concetti. Ci spiega, secondo lei, perché sono così complementari?
«Prendersi cura di sé, dare valore alla salute ed essere consapevoli di quanto sia importante, e tutt’altro che scontato, stare bene predispone a una maggiore attenzione agli altri. Seguire corretti stili di vita e donare sono due concetti che vanno quindi a braccetto».
L’autosufficienza ematica è un asset importantissimo per un Paese come l’Italia, addirittura strategico. In base alla sua esperienza associativa cosa bisogna fare per migliorare la raccolta soprattutto di plasma in Italia?
«Il sistema sangue italiano rappresenta un fiore all’occhiello, e dobbiamo esserne fieri. D’altra parte, per salvaguardare questo modello occorre l’impegno di tutti. Infatti, a differenza di altri Stati, il nostro sistema si basa sulla gratuità e sull’anonimato del dono. Affinché tutti ne possano usufruire, perciò, è necessario che quante più persone possibili se ne facciano carico, donando periodicamente».
Essere dirigente associativa nella propria regione significa avere uno sguardo privilegiato sulle esigenze del sistema trasfusionale del proprio territorio. Come ha reagito il Veneto alla pandemia da Covid-19? I donatori hanno risposto bene?
«Sì, i donatori hanno risposto agli appelli, telefonando in massa all’inizio del lockdown della primavera 2020, tanto da arrivare a intasare i centralini del servizio prenotazioni. Hanno compreso le esigenze degli ospedali quando è stato chiesto di dilazionare le donazioni; poi, quando le attività sono ripartite, non hanno fatto mancare il loro aiuto».
E le strutture di ricezione per donatori?
«Per quanto riguarda Verona e provincia, direi che abbiamo collaborato attivamente, in maniera ancora più coesa, fra associazioni del dono, Dipartimento di Medicina trasfusionale e strutture territoriali. Grazie a questa sinergia e al continuo aggiornamento è stato possibile organizzare al meglio la raccolta, nonostante il periodo anomalo e le sfide imposte dalla pandemia».
Un obiettivo trasversale per tutte le associazioni di donatori di sangue è riuscire a operare il cambio generazionale, secondo lei come si trasformano le nuove generazioni in schiere di donatori periodici?
«Fortunatamente possiamo contare su molti giovani donatori periodici. Di certo vanno coinvolti fin dall’infanzia, perché al concetto di sangue colleghino come primo pensiero la parola dono, in positivo. Lavoriamo in questa direzione entrando nelle scuole di ogni ordine e grado, spiegando la vitalità del dono e raccontando che il sangue è insostituibile, ma necessario per molti malati. Se imparano questo fin da piccoli, è più facile che poi se ne ricordino una volta compiuti i 18 anni e compiano questa scelta in modo naturale».
Chiudiamo con un’esortazione. Cosa direbbe a un cittadino non donatore per convincerlo a donare?
«Spesso, nella vita, ci formiamo delle idee sulla base delle esperienze e dei racconti che ci hanno fatto altre persone. E le proviamo anche noi partendo da un suggerimento o da una suggestione. Perché non dovremmo farlo per il sangue? Un tentativo non costa nulla e nel caso si può sempre scegliere di smettere, senza costrizioni da parte di nessuno. Vista la posta che c’è in gioco, non vale almeno la pena di provare?».