Sono a casa da 25 giorni, faccio la spesa di rado. Non chiedo ai negozi di portarmela a casa, per evitare di inflazionare i servizi di consegna a domicilio. Anche se amo fare jogging, non sto uscendo per correre, faccio sport in casa e utilizzo la mini palestra.
Qui a Milano la città è vuota ed è spettrale. Nelle ultime settimane io e la mia compagna, Susanna, abbiamo smesso di prendere i mezzi pubblici. Per andare a donare il sangue il 18 marzo abbiamo usato l’automobile. Quel giorno, quando ci siamo recati all’associazione donatori dell’ospedale San Paolo, ho notato le misure di sicurezza eccezionali che il personale stava applicando, sia sui donatori, che sugli operatori. Il caposala parlava di una circolare, arrivata in quelle ore, nella quale veniva chiesto di attuare delle particolari misure di sorveglianza, controllo della salute e tutela dei donatori presenti nella sala d’attesa. Eravamo a nostro agio perché ci sentivamo sicuri grazie alle misure prese.
Quando sono entrato nel centro mi hanno detto che avrei dovuto indossare subito la mascherina. Sono andato a cercarne una in farmacia. L’ho trovata e l’ho indossata, e al mio ritorno al centro mi sono accorto che il reparto aveva trovato le mascherine da fornire ai donatori. C’era molta cura nel distanziare le persone anche nella sala delle donazioni. Gli operatori avevano accomodato le persone occupando un posto su due, lasciando liberi degli spazi per creare il distanziamento che evita la diffusione dell’epidemia. La mia compagna, Susanna, avrebbe voluto donare, ma quel giorno non ha potuto. Le hanno detto di tornare nelle prossime settimane perché in futuro ci sarà sicuramente bisogno di sangue e plasma.