Plasma, gli Usa in testa a raccolta ed esportazioni: rischi e scenari possibili

2020-06-08T15:36:48+02:00 8 Giugno 2020|Mondo|
di Giancarlo Liviano D'Arcangelo

Che cosa succederebbe se il plasma – così prezioso e oggi così ricercato per i suoi possibili utilizzi anche in campo anti-Covid – diventasse all’improvviso meno disponibile sui mercati internazionali? La domanda non è né fantasiosa né pretestuosa, ma anzi rischia di diventare molto attuale. Vediamo perché.

Da diversi anni ormai, prima su Buonsangue e poi su DonatoriH24, proviamo a spiegare come l’autosufficienza nazionale riguardo a una risorsa come il plasma sia assolutamente fondamentale per la vita della comunità e per la salute nazionale in un paese moderno, al punto che il plasma deve essere considerato un bene di importanza strategica non inferiore ad acqua, ossigeno, cibo, acciaio ed energia.

Il nostro Paese, che per il sangue intero ha già raggiunto l’autosufficienza da molti anni, sul plasma è sulla buona strada, grazie all’applicazione certosina di un vero e proprio progetto quinquennale chiamato Piano nazionale plasma 2016-20, pianificazione attenta e votata alle buone pratiche che di fatto ha permesso di perseguire concretamente l’autosufficienza portando la raccolta e la conseguente produzione di plasmaderivati all’incirca sul 70% del fabbisogno nazionale.

Il restante 30% dei plasmaderivati necessari ad ottemperare alle necessità del sistema sanitario italiano vanno invece acquistati sul mercato, ed è su questo punto che – analizzando l’universo plasma con gli occhi dell’osservatore che non si sofferma soltanto sugli aspetti tecnici del suo oggetto di studio, ma che prova a valutare anche gli scenari sociali e geopolitici a proposito di una risorsa che, lo ricordiamo, è soltanto biologica e non si può riprodurre artificialmente in laboratorio – emergono scenari  da non sottovalutare, specie nel tempo in cui un evento tragico e imprevedibile come l’epidemia di Coronavirus è stato in grado di condizionare fortemente i comportamenti sociali.

Come sappiamo da analisi e articoli già pubblicati in passato, oggi il più grande produttore di plasma internazionale sono gli Stati Uniti d’America, un paese densamente e fortemente popolato che da solo raccoglie circa il 60% del plasma a disposizione ogni anno del mondo, a fronte di una popolazione che corrisponde al 5% della quota planetaria.

Una “sovrapproduzione” che permette al plasma statunitense di rappresentare da solo circa l’1,9% dell’esportazioni nazionali, superando acciaio e automobili.

Si tratta di sproporzione enorme, se pensiamo che in caso di recrudescenze di eventi imprevedibili e traumatici come per esempio l’epidemia attualmente in corso, gli Usa – peraltro guidati da un governo deliberatamente nazionalista – potrebbero anche decidere tranquillamente di utilizzare la stragrande maggioranza della risorsa biologica raccolta per soddisfare la domanda interna in crescita.

Non si tratta di ipotesi apocalittiche, tutt’altro.

Se per esempio la terapia al plasma iperimmune, nei prossimi mesi dovesse rivelarsi, in attesa del vaccino, ancora una volta l’unica arma contro possibili recrudescenze del Covid-19 nel prossimo autunno, le condizioni del mercato del plasma potrebbero subire bruschi cambiamenti, e a cascata generare effetti tutti da valutare, dagli Usa fino al resto del mondo.

Ciò che infatti va sottolineato, è che la raccolta plasma negli Stati Uniti è molto diversa da quella italiana: come sappiamo in Italia avviene grazie alle associazioni di donatori di sangue, ed è anonima, gratuita, volontaria, organizzata e responsabile, in modo da integrarsi in un sistema di plasmalavorazione in contro terzi per la produzione di farmaci plasmaderivati salvavita grazie al quale il plasma, prima stoccato nelle sacche e poi sottoforma di farmaco, è e resta sempre un bene pubblico. La modalità di raccolta italiana, che può contare su quasi 2 milioni di donatori periodici, è un unicum mondiale preso d’esempio a livello internazionale e garanzia di eticità e sicurezza trasfusionale.

Negli Stati Uniti la raccolta di plasma avviene invece per lo più a pagamento, uno status quo che suscita ben più di un dubbio etico, tanto che il New York Times, il primo febbraio di quest’anno, ha pubblicato una lunga e approfondita inchiesta a firma di Zoe Greenberg, finalizzata proprio a indagare le implicazioni di tale fenomeno sul piano etico, economico e sanitario.

L’inchiesta del New York Times

Partendo da Filadelfia, Zoe Greenberg mostra che il business della raccolta plasma a pagamento sia in forte crescita nel Paese, tanto che i centri di raccolta a partire dal 2005 sono più che raddoppiati, e che la vendite globali hanno raggiunto quota 21 miliardi di dollari nel 2017. Una singola “donazione” a pagamento – già un ossimoro che tuttavia viene utilizzato nelle brochure ufficiali delle industrie raccoglitrici – viene pagata circa 30 dollari, e poiché una donazione di plasma si può tecnicamente ripetere ogni due settimane, i venditori abituali del loro plasma riescono di media a guadagnare i 2 dollari al giorno necessari per vivere o comunque per arrotondare il reddito.

Molti analisti concordano sul fatto che i centri di raccolta delle multinazionali come per esempio Csl Behring sono aperti soprattutto nelle aree più depresse di un paese che ormai, dagli ultimissimi dati (Fonte Agi) conta ben 36 milioni di sussidi di disoccupazione. Dunque, al di là delle versioni contrastanti, secondo cui nei centri di raccolta plasma a pagamento è possibile trovare persone di tutti i ceti sociali, è del tutto evidente che la possibilità di guadagnare contanti in modo semplice e veloce attraverso una trasfusione di plasma al centro di raccolta più vicino a casa e ubicato in uno dei grandi centri commerciali delle periferie urbane, sarà una pratica altamente utilizzata da chi non ha accesso ad altre forme di reddito.

Del resto, scenari come questo sono proprio quelli attesi dalle multinazionali in prima fila sul mercato interno, che si aspettano nell’immediato futuro una crescita delle possibilità di approvvigionamento a basso costo della materia prima. A fronte di quale utilizzo?

In tal senso gli scenari possibili sarebbero tutti da dimostrare. C’è, per esempio, la possibilità che il calo di domanda interna di plasmaderivati in Usa a seguito del minor numero di assicurazioni sanitarie per uno stato di povertà sempre più generalizzata, crei aumenti di prezzo per il mercato nazionale che può permetterseli e maggiori esportazioni verso Europa e paesi in via di sviluppo; oppure, al contrario, una nuova esplosione epidemica con grandi necessità di plasma iperimmune potrebbe ridurre sensibilmente le possibilità, per paesi come l’Italia, di accedere alle quote mancanti del proprio fabbisogno nazionale se non a costi elevatissimi.

Sul New York Times inoltre, Zoe Greenberg si è soffermata sui problemi etici e sanitari legati al tema del plasma retribuito, problemi che naturalmente stanno ormai da mesi generando un grande dibattito interno.

In primo luogo vi è il ruolo della povertà. Come già accennato, molti analisti pensano che sia la povertà ad alimentare il mercato, tesi che sembra essere confermata dalla ricerca del Centre for Health Care sui centri di raccolta chirurgicamente posizionati in quartieri depressi e poveri. Opinioni discordanti sono emerse anche riguardo l’idea di sfruttamento (sarebbero troppo pochi 30 dollari a prelievo) tanto che lo studioso Luke Sheafer, voglioso di stabilire un prezzo più giusto, ha proposto un vero e proprio “salario minimo per i donatori di plasma”.

Secondo tema di scontro in Usa è l’impatto sulla salute dei venditori. Molti esperti dicono che troppe donazioni generano effetti negativi sulla salute generale di chi si sottopone al prelievo, e che ala lunga il plasma di venditori abituali risulti via via sempre meno ricco di anticorpi e proteine curative, mentre altri studiosi parlano di effetti trascurabili.

Infine il tema della sicurezza dei plasmaderivati. Se è vero che ormai gli standard internazionali sulla sicurezza sono elevati, la raccolta indiscriminata a pagamento di plasma da soggetti non in perfetta salute, potrebbe essere comunque un elemento di rischio nella produzione di farmaci. Un problema da evitare assolutamente.

Tra i tanti dubbi, una sola certezza.

Il mercato internazionale del plasma e dei plasmaderivati è destinato a crescere enormemente nel mondo anno dopo anno, come spiegano tutte le ricerche internazionali tarate fino al 2023, proprio per la grande richiesta attesa dai paesi emergenti densamente popolati come India, Cina o Brasile.

La variabile “epidemie”, in quest’ottica, consiglia di monitorare tutti gli scenari possibili con grande attenzione, e accresce ancora di più, per gli stati nazionali, l’importanza assoluta dell’autosufficienza ematica sia sul piano dell’approvvigionamento della materia prima, sia su quello dell’autonomia della lavorazione sul proprio territorio, secondo rigidi criteri di sicurezza, etica e responsabilità a noi peculiari e assolutamente irrinunciabili.