La nostra intervista in diretta streaming di pochi giorni fa a Gino Strada, carismatico fondatore di Emergency, ha avuto – tra gli altri – il pregio di sollevare il tema di come stia cambiando il sistema sanitario nel nostro Paese. Alla nostra osservazione sul fatto che il sistema italiano tutto sommato costituisce ancora una sicurezza e un’eccellenza, Strada ha obiettato: “Mica tanto più vero! Fino a un po’ d’anni fa, forse, ma adesso la situazione è molto cambiata”.
L’intervista era stata organizzata nell’ambito del congresso medico sull’emofilia dal titolo significativo “La certezza della cura”, iniziativa sostenuta dalla società italiana Kedrion, con Trieste come teatro dell’evento. L’intervento di Gino Strada, che proprio in quei giorni celebrava i 25 anni di Emergency, ha di fatto chiuso il congresso con un finale di grande spessore umano e professionale.
Che cosa dice Strada? E perché quello che esprime è interessante anche nel campo del sangue e del plasma?
Il fondatore di Emergency punta il dito sulla sanità dei privilegi e degli accessi condizionati alle possibilità economiche dei cittadini: in pratica, chi può permettersi di pagare le cure, ha strade più aperte e veloci. Gli altri, fanno (e faranno) sempre più fatica. Apparentemente, potremmo osservare, niente di particolarmente inedito: in fondo non è sempre stato così? Vero, se non fosse che l’asticella delle possibilità si sta alzando sempre di più. Ovvero, si sta restringendo progressivamente la cerchia di chi può, e di conseguenza si allarga la base degli “esclusi”.
Perché accade questo?
Al di là delle oggettive responsabilità della classe politica e degli interessi di lobby sempre più agguerrite, la globalizzazione sta portando sempre di più il nostro Paese nell’orbita di soggetti economici che organizzano il proprio business su scala planetaria: l’Italia è una regione – perdipiù abbastanza piccola – che nelle logiche di questi player non può e non deve fare eccezione. Chi guadagna sulla salute, spesso ha interesse a omogenizzare e standardizzare i modelli. Le eccezioni non piacciono, sia perché richiedono una gestione separata, sia perché rischiano di creare crepe nel modello che si ritiene più redditizio.
Questo tema investe anche il settore sangue-plasma.
In Italia, come sappiamo, ci sono due punti di riferimento fondamentali, potremmo definirli l’alfa e l’omega di uno stesso sistema: da un lato l’obiettivo dell’autosufficienza ematica del Paese, e dall’altro la raccolta di sangue e plasma non remunerata, realizzata prevalentemente attraverso il volontariato. Parliamo dei quasi due milioni di donatori che – tra associazioni e altri modelli organizzativi – costituiscono di fatto un unicum nel panorama internazionale.
L’autosufficienza del Paese in fatto di approvvigionamento di sangue e plasma è fattore primario di sicurezza nazionale, né più né meno come l’acqua e l’energia. Il suo raggiungimento è un obiettivo che si dice quasi raggiunto, e che spesso viene sbandierato negli eventi pubblici, ma nel quale in realtà non tutti gli addetti ai lavori credono, ritenendo forse che in una società globalizzata dove le merci viaggiano velocemente, anche per il sangue possa funzionare così. Questo tipo di valutazione non tiene conto, evidentemente, di come possano cambiare rapidamente scenari ed equilibri internazionali, per esempio con alleati che improvvisamente possono diventare competitor o addirittura nemici.
Il volontariato è l’altra peculiarità italiana. In molti paesi i donatori vengono remunerati attraverso varie formule: si va dall’omaggio al versamento di denaro. Così il plasma non è più un “dono” ma una “merce” che viene messa sul mercato. Chi ha interesse che in Italia si vada verso questo tipo di modello? Per quali ragioni? E quali potrebbero essere le conseguenze?
Queste sono domande alle quali non è facile rispondere, ma già il metterle sul tavolo significa fare un passo in più in quel processo di consapevolezza che nel mondo dei donatori sembra ancora riservato a una strettissima minoranza. Certamente l’apertura del mercato italiano alle multinazionali estere, ha portato nella raccolta italiana dei player globali abituati a lavorare con “donatori” che più che donare, vendono. Questo è il mondo da cui provengono le multinazionali, oggi presenti nel nostro Paese grazie a un processo di “liberalizzazione” voluto dai precedenti governi in nome di una più ampia concorrenza.
È onestamente difficile pensare che queste grandi società lasceranno il sistema sangue italiano così come l’hanno trovato. Così come appare difficile pensare che nel produrre i farmaci emoderivati, privilegeranno le reali esigenze della nostra comunità rispetto alle logiche di business globale. Questo, ovviamente, senza sottovalutare l’opera di vigilanza, controllo e gestione di organismi come il Centro nazionale sangue (Cns) con tutte le sue diramazioni regionali.
Queste ed altre valutazioni – condotte con senso di responsabilità, equilibrio e ampio spazio a tutte le voci in campo – dovrebbero far parte del bagaglio di consapevole conoscenza del Sistema sangue italiano, sia per la parte tecnico-istituzionale (ministero della Salute, Cns, Aifa ecc. ecc.), sia per la parte costituita dai donatori e dai pazienti. Se non altro per non restare a bocca aperta quando ci troveremo con un sistema radicalmente trasformato.