Quando ho conosciuto il mio attuale marito, una delle cose che mi ha colpito di lui è stata l’ironia, mi faceva ridere, molto. Ridevamo assieme di tutto: dei nostri difetti, dei nostri pregiudizi, della vita. Abbiamo iniziato a vivere insieme quasi da subito. D’altronde viviamo assieme da quasi vent’anni, quindi direi che sia stata la scelta giusta, anche se all’epoca affrettata. Ma quando abbiamo iniziato a convivere di lui ovviamente non sapevo molte cose.
Un giorno si alza e mi dice, serio: “non faccio colazione ora, ho da fare”. Che cosa? Domando io. La colazione per noi è da sempre un rito quotidiano, ci piace apparecchiare la tavola di cibi dolci e salati e prenderci tutto il nostro tempo per assaporarli. Per saltarla, ci deve esser proprio un motivo valido. “Vado a donare sangue. Sta arrivando l’estate, ne hanno ancora più bisogno”.
Ero familiare con gli ospedali. Genitori anziani, acciacchi dei parenti: per me gli ospedali erano però un posto orrendo, dove andare il meno possibile e tendenzialmente cercando di non abbattersi troppo. Ma lui ci andava così, senza battere ciglio. Oggi mi sembra quasi assurdo raccontarlo, ma quelle due parole “vado a donare” per me erano davvero incomprensibili.
Come tutte le cose lontane da me, però, mi attraevano. Vengo anche io, risposi di getto. E così fu. Andammo assieme al centro trasfusionale dell’Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, a Roma. Quasi nessuna fila, un caldo asfissiante tra quei corridoi senza aria condizionata e con tutte le finestre spalancate. “Sono un donatore”, disse lui all’infermiere che ci accolse con un sorriso. “E lei è mia moglie. Vorrebbe donare anche lei”. E poi la trafila che tutti i donatori conoscono, lo screening. E quei cinque minuti in cui riempiono la sacca.
Devo dire la verità, non pensavo di farcela. Mai avuto paura dell’ago, ma con quel caldo…mi dicevo magari svengo. E invece no. Tutto andò bene. Certo, il cornetto che ci offrirono finito tutto non era esattamente di pasticceria. Ma era così tanta la soddisfazione e la leggerezza che sentivo, che andò benissimo. Avevamo chiacchierato con chi aspettava come noi, parlato del più e del meno con le infermiere. Tutto era stato “leggero”.
Da allora ogni tanto, non con regolarità devo ammettere, vado a donare sangue. A volte mi chiamano sul cellulare per avvisarmi che ce n’è bisogno. Il Lazio si sa, non è una regione autosufficiente per quanto riguarda il sangue. E ora, dopo tutto questo tempo, non capisco perché ancora le persone non facciano automaticamente un gesto così semplice. Non aspettate che qualche vostro parente stia male, donate perché è bello donare.
*Patrizia Lombardi è impiegata a Roma