«C’è stata molta partecipazione, sono soddisfatto». Non ha dubbi il professore Victor Blanchette (nella foto qui accanto) dell’Università di Toronto, sull’importanza di eventi come il simposio “L’Emofilia nel terzo millennio: l’accesso alle cure, gli aspetti sociali, i progetti”, tenutosi ad Alessandria il 27 settembre: è fondamentale che si diffonda consapevolezza.
Blanchette è uno dei massimi esperti di ematologia a livello mondiale, medical director del Pediatric Thrombosis and Hemostasis Program – Divisione di Ematologia e oncologia Hospital for Sick Children della capitale canadese. Al simposio ha portato lo sguardo internazionale sull’emofilia: la profilassi rende i bambini di tutto il mondo dei bambini liberi. C’è bisogno di lavorare perché tutti ne possano usufruire, racconta a Donatorih24. Gli abbiamo chiesto di spiegarci meglio in cosa consistano i suoi progetti e di darci il suo sguardo sulla realtà del sistema sangue canadese.
Professore, nella sua relazione parla di come la terapia on demand lasci oramai il posto alla profilassi, diventata il nuovo standard di cura. Come è cambiata la vita del paziente emofiliaco negli ultimi decenni?
I ripetuti sanguinamenti articolari rappresentano la manifestazione clinica più frequente dell’emofilia, essi causano l’artropatia. L’artropatia emofilica è una patologia estremamente invalidante caratterizzata dal progressivo, dolente, deterioramento articolare. La disponibilità dei concentrati dei fattori della coagulazione, consente un trattamento precoce o addirittura di evitare l’episodio emorragico attraverso il trattamento profilattico: ciò ha profondamente cambiato la storia naturale e l’approccio terapeutico dell’artropatia emofilica, di conseguenza la vita dei pazienti. Un bambino emofiliaco con artropatia è un bambino disabile, che non può frequentare regolarmente la scuola, che non si può muovere autonomamente. Un un bambino che segue una profilassi dai primi mesi di vita – le emorragie possono iniziare anche a 8 mesi – è invece un bambino che potrà andare a scuola, condurre una vita “normale”, fare anche sport, ad eccezione ovviamente di quegli sport più pericolosi, come box o l’hokey su ghiaccio.
Non tutti però oggi hanno la possibilità di seguire la profilassi. Può dirci della sua esperienza nei paesi in via di sviluppo?
Per questo la profilassi è davvero una sfida globale. Le posso portare due esempi: i Caraibi e la Cina. Attraverso finanziamenti pubblico-privati dal 2013 lavoro alla SickKids – Caribbean Initiative (SCI), sei i paesi coivolti: Barbados, Bahamas, Giamaica Santa Lucia, San Vincent e Grenadine, Trinidad e Tobago, con una popolazione complessiva di 4.5 milioni. Non si tratta di un progetto di pura assistenza ma di empowerment: vengono formati gli specialisti e attraverso donazioni si forniscono i farmaci per la profilassi. La popolazione cinese, come sa è di gran lunga più ampia, anche qui abbiamo fatto dei trial clinici e pian piano il governo cinese si è reso conto della necessità di fornire la profilassi. Oggi a seconda delle regioni essa è a pagamento o fornita dallo Stato ma le cose stanno progredendo verso la giusta direzione. Questi sono esempi del fatto che se un paese, in questo caso il Canada, crede fortemente nel progetto, la situazione può cambiare in meglio.
Parliamo quindi del Canada, ma le chiedo di concentrarsi invece sul sistema sangue. Il suo paese oggi è autosufficiente per quanto riguarda piastrine e globuli rossi, come è riuscito a raggiungere tale obiettivo?
Ci siamo impegnati molto in campagne di sensibilizzazione. Oggi tutti sanno che donare sangue è importante e nella loro vita quotidiana trovano il tempo per farlo.
E per quanto riguarda il plasma?
Il Canada è autosufficiente per quanto riguarda la necessità di plasma per le trasfusioni. Ma non lo è per la produzione di plasmaderivati. Siamo in grado di raccogliere solo il 17 per cento del plsma necessario per produrre i farmaci plasmaderivati necessari ai pazienti canadesi.