La terapia al plasma iperimmune contro il Covid-19, autorizzata dal ministero della Salute il 27 marzo, sta già dando notevoli risultati. Il progetto avviato all’ospedale Carlo Poma di Mantova e al San Matteo di Pavia, capofila della sperimentazione, comincia a offrire i primi effetti prodotti dalla terapia che si avvale degli anticorpi presenti nel plasma dei pazienti guariti da coronavirus, iniettati nei nuovi malati.
Spiega cosa accade Giuseppe De Donno, pneumologo del Carlo Poma di Mantova, che segue il decorso della patologia da Sars-CoV-2 nei pazienti con rilevanti problemi respiratori che partecipano al progetto.
Quali sono i primi risultati che state ottenendo dopo il via alla sperimentazione della terapia al plasma dei guariti?
“Dopo il via del ministero, abbiamo iniettato il siero iperimmune in dieci pazienti affetti da Coronavirus. La percentuale dei malati secondo i risultati preliminari, se vogliamo essere cauti, è pari al 65 per cento circa del totale, ma siamo fiduciosi. Già si vedono i primi notevoli miglioramenti nelle condizioni di salute delle persone. I dati degli esami del sangue a cui stiamo sottoponendo i pazienti confermano questo trend. I risultati di alcuni test specifici, che indicano i livelli di ossigeno nel sangue, dimostrano già che l’ossigenazione è migliorata. Dicono la stessa cosa anche gli altri test laboratoristici che stiamo realizzando.
La Sars-CoV-2 comporta problemi respiratori che si sviluppano in una sindrome detta Ards cioè da distress respiratorio. La patologia consiste in un’infiammazione grave dei polmoni che determina la riduzione dei livelli di ossigeno nel sangue. Per questo motivo i pazienti, nel momento in cui si aggrava la patologia, vengono sottoposti ad una ventilazione meccanica, prima non invasiva, poi, se si aggrava, invasiva, cioè la terapia intensiva.
Per questo esistono vari livelli di gravità della patologia. Stiamo per ora applicando la terapia ai pazienti Ards di grado primo e secondo. L’Ards al terzo grado indica un’ancora maggiore gravità. Secondo il protocollo non applichiamo la cura a questo tipo di paziente. Non è possibile applicare la cura nemmeno in via preventiva ai malati. Per ora è utilizzata solo per coloro con l’Ards. Se la terapia continuerà a funzionare così bene, diminuiremo i tempi in cui i pazienti vengono sottoposti alla ventilazione meccanica, e ridurremo la probabilità dei pazienti di essere intubati”.
Qual è stato il merito del vostro team di ricerca?
“Grazie all’impegno di Massimo Franchini, responsabile dell’iniziativa e direttore del servizio di immunoematologia e medicina trasfusionale del Carlo Poma, abbiamo potuto aderire al protocollo del San Matteo di Pavia, capofila della sperimentazione al plasma iperimmune che ci ha fornito l’emocomponente, cioè il plasma pieno di anticorpi, da infondere ai malati”.
Come si è svolta nel dettaglio la sperimentazione della terapia?
“Abbiamo iniettato 300 ml di plasma iperimmune per ognuno dei 10 pazienti sottoposti alla terapia. Il protocollo, rispettato rigorosamente dall’ospedale Carlo Poma e da quello di Pavia, prevede di applicare la cura a coloro che ancora non sono in condizioni gravissime. Perciò 6 dei malati scelti per partecipare erano di primo grado della sindrome da distress respiratorio. Il primo grado indica la non assoluta gravità della patologia. Poi l’abbiamo provato su 4 pazienti più gravi, cioè livello di sindrome da distress respiratorio di secondo grado. La risposta è stata più tardiva, ma allo stesso tempo evidente. Al momento infonderemo il plasma solo una volta; se la risposta è parziale, cioè non è sufficiente, due volte”.
Qual è il passo avanti che state compiendo in questi primi giorni in cui potete sperimentare sul campo la terapia di cui si è tanto sentito parlare?
“L’arruolamento dei pazienti affetti da coronavirus è stata la parte determinante negli ultimi giorni, perché sul campo abbiamo dovuto stabilire quale fosse grado di malattia presente nell’organismo dei pazienti, e scegliere coloro che reagissero nel migliore dei modi alla terapia in base allo stato del decorso dell’infezione. Abbiamo individuato la categoria giusta nei malati con una storia della patologia non troppo datata. Parliamo di persone il cui organismo combatte contro il virus da 10-15 giorni. Il nostro sforzo in questo periodo è concentrato nell’evitare l’intubazione a persone con un livello di sindrome da distress respiratorio di primo e secondo grado. Quindi valutiamo bene gli esami del sangue, consideriamo che esista l’infezione in corso, e lavoriamo sui dati certi che dimostrino che c’è un’attività della malattia in atto”.
Considerati i risultati positivi, qual è il prossimo step che affronterà l’ospedale di Mantova?
“Aumenteremo la produzione di plasma in loco per offrire questa cura ad un numero maggiore di malati di coronavirus. Presto inizierà la produzione di plasma iperimmune dei mantovani, perché ora il prodotto ce lo fornisce il San Matteo di Pavia. Una task force composta dal dottor Massimo Franchini, il dottor Salvatore Casari, la dottoressa Marilena Frigato, la dottoressa Viviana Ravagnani ed il sottoscritto, si impegnerà in questi giorni ad ottenere una grande quantità di plasma iperimmune. Al momento solo Pavia e Mantova aderiscono al protocollo, ma tantissime strutture ospedaliere della Lombardia stanno dimostrando di voler partecipare. Quindi vorremmo produrre il plasma per gli altri centri”.
Il plasma, dalle vostre ricerche, si è rivelato un prodotto affidabile e sicuro?
“Il prodotto che stiamo utilizzando è sicurissimo, subisce sia i controlli dei donatori di sangue, cioè le analisi del sangue, sia un doppio ultra filtraggio. Non abbiamo incontrato al momento problemi di alcun tipo nell’infusione ai pazienti, nessun controeffetto o reazione allergica. Il livello di sicurezza è alto”.
Qual è il ruolo dei donatori di sangue in tutto questo?
“I donatori erano già importanti a prescindere da questa emergenza, ma ora da loro dipende la possibilità di salvare delle vite nella lotta al Covid-19”.
LEGGI l’intervista a Massimo Francolini, responsabile del progetto al Carlo Poma di Mantova
LEGGI l’intervista a Cesare Perotti dell’ospedale San Matteo di Pavia