“L’unica soluzione per contenere le carenze di sangue è quella di trovare un maggior numero di donatori”. Commenta così, parlando con DonatoriH24, il presidente di Avis Nazionale, Gianpietro Briola, lo studio clinico condotto in Inghilterra sulla possibilità di ridurre i tempi di intervallo tra una donazione e l’altra così da garantire più scorte nei periodi di carenza.
La ricerca, chiamata Interval e poi pubblicata sulla rivista Lancet Haematology, come riporta anche l’Agi, è durata per quattro anni e ha visto gli studiosi dell’università di Cambridge coinvolgere 40mila donatori, diventati poi la metà nel secondo biennio. L’obiettivo è stato quello di conoscere i possibili effetti di un “restringimento” di questi intervalli e, al termine del test, è emerso che al massimo questa misura potrebbe essere utile in caso di carenze significative di sangue. Ma è davvero così?
“Dal nostro punto di vista, la tutela della salute del donatore viene prima di qualsiasi cosa – spiega Briola -, ecco perché riteniamo le quattro donazioni annue di sangue intero più che sufficienti per garantire il fabbisogno”. Tra l’altro l’intervallo previsto è garanzia anche di “rispetto” per la generosità umana e civile di “coloro che non possono e non devono essere considerati come materia prima da sfruttare“. La soluzione quindi, secondo il presidente, andrebbe cercata in un’altra direzione: “Occorre aumentare il numero dei donatori, programmando in maniera precisa la loro chiamata e lavorando seriamente e costantemente per coinvolgere i giovani e assicurarci, così, il ricambio generazionale”.
Anche perché non bisogna dimenticare che se è previsto un intervallo temporale tra una donazione e l’altra, i motivi ci sono eccome. Capiamo perché: “In caso di donazioni più ravvicinate, i primi che avrebbero problemi sarebbero proprio i donatori, che si ritroverebbero con livelli di ferro e sideremia troppo bassi e con conseguente recupero di forze più lento e difficoltoso”. E se per quel che riguarda il sangue intero la situazione sarebbe questa, diverso ancora sarebbe il quadro se si prendesse in esame il plasma.
“In questo caso, riducendo il tempo come avviene ad esempio negli Stati Uniti o in Germania – conclude Briola – ci si troverebbe ad avere un plasma meno ricco di proteine e immunoglobuline. Tutto questo, pur non creando problemi particolari a chi dona, intaccherebbe la qualità del plasma stesso, che sarebbe meno utile ai fini della lavorazione e della produzione dei farmaci”.