Sangue infetto, la brutta storia di un’Italia
che cercava i colpevoli per dimenticare le vittime

2019-01-24T17:13:00+01:00 15 Novembre 2018|Attualità|

Per molti anni lo scandalo del sangue infetto è stato raccontato come una storia in cui alcuni magistrati particolarmente agguerriti cercavano di mettere all’angolo una serie di colpevoli (o presunti tali) particolarmente bravi a sfuggire alla giustizia. Nel mezzo, le vittime di quella che viene definita una “catastrofe sanitaria”. Oggi, a distanza di quasi trent’anni da quei primi, tremendi anni ’90, si scopre che quei magistrati combinarono “un gran pasticcio” e che i “colpevoli” messi sotto tiro non solo non erano tali ma proprio non si potevano tecnicamente considerare tali, vista la meccanica e la semplice cronologia dei fatti. Gli unici che erano, e restano oggi, i veri sfortunati protagonisti di questa storia, sono quei cittadini che in seguito alle trasfusioni di sangue infetto si ammalarono di Aids e di epatite C, i famigerati “cigni neri”, ovvero quei virus allora sconosciuti che negli anni ’80 presero a diffondersi a macchia d’olio prima di essere identificati, isolati e poi – negli anni successivi – progressivamente combattuti con risultati lentamente positivi.

DAI RISARCIMENTI AGLI INDENNIZZI

A consentire una rilettura completa – e per certi versi choccante di questa storia – è il libro “Sangue infetto” realizzato da Michele De Lucia, giornalista e scrittore di estrazione radicale e radicalissimo nel suo scendere in profondità senza tralasciare niente. “Sangue infetto” (Mimesis editore) è infatti un’opera monumentale, complessa e completa, che DonatoriH24 ha già recensito ma di cui riparliamo volentieri perché, forse per la prima volta – nella presentazione di mercoledì sera alla Camera (nella foto Andrea Spinetti, Michele De Lucia, Raffaella Cesaroni e Michele Vietti) – esponenti delle istituzioni hanno ammesso pubblicamente le responsabilità e i limiti non solo della magistratura, ma dello Stato inteso nel suo complesso, a cominciare dall’errore – drammaticamente decisivo – di portare questa vicenda sul terreno del processo penale, quindi di andare alla caccia di colpe che tali non erano per poi puntare ai risarcimenti. Mentre invece – ha ricordato l’ex ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, intervenuto nel dibattito coordinato dalla giornalista Raffaella Cesaroni – il criterio avrebbe dovuto essere quello della solidarietà. Un concetto fondamentale, che avrebbe dovuto imporre alla collettività (quindi allo Stato) di indennizzare adeguatamente le persone coinvolte in questa drammatica vicenda senza scatenare un’inutile e infondata caccia ai colpevoli: anni e anni di processi utili solo a rinviare il momento di un riconoscimento economico del danno subito. Il risultato è stato che molte vittime si sono sentite letteralmente abbandonate e dimenticate.

IL “GRAN PASTICCIO” DEI MAGISTRATI

Ma ad ammettere che i magistrati combinarono “un gran pasticcio” è stato un altro politico di lungo corso, Michele Vietti, oggi professore di diritto, ma nel recente passato membro laico del Csm e quindi più che autorevole nel giudicare il comportamento di giudici e magistrati. Dopo aver riepilogato il tortuoso percorso giudiziario della vicenda – partita dall’iniziativa dell’ex magistrato Carlo Palermo, allora a Trento, e poi approdata a Napoli – Vietti ha spiegato che un caso come quello del sangue infetto avrebbe avuto bisogno di magistrati con competenze specifiche e appropriate, anche se nel contempo ha voluto sottolineare come l’attivismo di alcune toghe abbia quantomeno costretto il legislatore a sviluppare e migliorare le norme sui risarcimenti.

UNA CAMPAGNA DIFFAMATORIA

In tutto questo, Michele De Lucia – avvalendosi anche della testimonianza di Andrea Spinetti, una delle vittime di questo scandalo e presente al tavolo dei relatori – ha ricordato come sia nato il libro e di come – scavando tra i documenti che schiere di giornalisti prima di lui avevano tralasciato e ignorato – sia stato costretto a cambiare radicalmente le idee di partenza. Tutto ciò che all’inizio sembrava ormai solidamente consegnato allo storytelling ufficiale di questa brutta pagina italiana, si è progressivamente rivelato fragile, inconsistente, spesso falso e frutto della peggiore pigrizia di giornalisti che in molti casi non hanno fatto altro che esercitarsi nel “copia e incolla”. Un intero settore come quello del sangue e del plasma che oggi nel Paese conta circa tre milioni tra addetti e volontari, ha rischiato di essere completamente devastato da una delle peggiori campagne diffamatorie messa in atto non per un piano diabolico ma – molto peggio – per la sciatta esuberanza di figure (magistrati, politici, giornalisti) per le quali l’etica, la sobrietà e l’equilibrio dovrebbero essere invece criteri fondamentali.

A esserne duramente colpiti, tra gli altri, aziende italiane, famiglie di imprenditori additate al pubblico scandalo, professionisti incolpevoli. Ma più di tutti ne hanno fatto le spese quelle persone che si sono ammalate. Colpite due volte.

Dall’infezione, e dall’illusione di avere dei responsabili da maledire e possibilmente da perseguire. De Lucia nel suo libro spiega esaurientemente perché le cose stanno in tutt’altro modo, e se tra i molti pregi della sua bellissima inchiesta ce n’è uno che vale la pena di sottolineare più degli altri, questo riguarda la dolorosa constatazione di come – attraverso questa vicenda – sia possibile guardare a ritroso nei quasi trent’anni che ci portiamo dietro, individuando molti dei segni della parabola di decadenza e di sfilacciamento sociale che oggi il Paese paga, e rischia di pagare, a carissimo prezzo.

(l.c)