Il sistema delle donazioni di sangue, oggi più che sicuro e forte di un sistema di controlli finemente collaudato, ha avuto un periodo buio, non soltanto in Italia, tra gli anni Settanta e gli anni Novanta quando scoppiarono diversi casi di sangue infetto. Sacche di sangue e plasma non testati, in cui erano presenti virus, furono somministrati a pazienti inconsapevoli che hanno subito danni, spesso irreversibili, alla propria salute.
La Fondazione Paracelso, oggi presieduta da Andrea Buzzi, 64 anni, nasce nel 2004 con la costituzione di un fondo di solidarietà a favore degli emofilici che negli anni ’80 avevano contratto patologie attraverso i farmaci necessari alla loro cura. Oggi, annullato il rischio di passaggio di sangue infetto tramite trasfusioni, la fondazione si occupa elaborare, finanziare, sostenere e attuare progetti scientifici e sociali per l’emofilia e i deficit ereditari della coagulazione.
Presidente Buzzi, per quali scopi è nata la fondazione Paracelso?
“Siamo nati dalla sciagurata vicenda delle infezioni emotrasmesse. In seguito, nei primi anni Duemila, facevo parte del gruppo dirigente dell’associazione di pazienti emofilici. Era un’epoca cupa perché le conseguenze del sangue infetto si riverberavano negli anni ed erano particolarmente drammatiche. Allora c’era l’esigenza, rivolta alle nuove generazioni, di farsi parte attiva e rilanciare un’attività sociale e di assistenza”.
Intanto, le trasfusioni sono diventate più che sicure
“Erano cambiate tante cose, quello che noi affrontammo in quel momento era un problema storico che però non aveva ancora avuto una risoluzione. Era importante per le persone dare comunque un segnale di attenzione. Nel 2004 venne costituita la fondazione che aveva come primo compito quello di contattare e proporre alle aziende farmaceutiche l’adesione a un fondo di solidarietà. Intanto, avevamo già maturato negli anni precedenti un’esperienza nella costruzione di programmi sociali a vantaggio delle famiglie, ormai passata la buriana delle infezioni restava il tema dell’accettazione della malattia, della possibilità di svolgere una vita pressocché normale. Ci definiamo una cerniera tra il mondo clinico e il mondo sociale perché riteniamo che poi la rappresentazione dei bisogni che circondano le persone affette da una malattia cronica deve essere svolta dagli stessi pazienti”.
I pazienti emofiliaci, grazie all’evoluzione della medicina, hanno quindi conosciuto grandi miglioramenti nelle loro vite
“Questo enorme progresso nell’assistenza clinica ha creato euforia, sia da parte dei medici, sia da parte degli emofilici e dei loro familiari, però ha messo per certi versi in evidenza diversi altri bisogni. Le malattie creano bisogni che non sono esclusivamente clinici, a questi bisogni la fondazione Paracelso si è rivolta. Cerchiamo di agevolare l’accesso alle cure e lavoriamo al fianco dei medici sempre con l’occhio rivolto alle necessità dei pazienti”.
La fondazione Paracelso è impegnata anche all’estero, come?
“Ci sono due progetti di cui siamo molto fieri. Uno lo abbiamo condotto intorno al 2010 in Afghanistan e in Zambia, due paesi molto problematici per varie vicende, in Afghanistan per le guerre, in Zambia per le condizioni socio – economiche. A Kabul e a Lusaka abbiamo costituito i primi centri di emofilia tramite le formazione di personale di laboratorio e clinico. Inoltre, siamo riusciti a fare entrare questi due paesi nella World federation hemophilia”.