“Secondo la Costituzione, tutti abbiamo diritto alla salute, tuttavia le persone che hanno una delle 7mila malattie rare si ritrovano praticamente a essere soli. Nessuno si occupa di malattie rare in quanto costa molto sviluppare un farmaco e l’industria evidentemente non lo può fare perché si tratta di trovare un farmaco per ogni malattia”. Il professor Silvio Garattini (Bergamo 12/11/1928) è una delle voci scientifiche più autorevoli in campo europeo. Medico, perito chimico, libero docente in chemioterapia e farmacologia, nel 1963 ha fondato l’istituto di Ricerche farmacologiche Mario Negri di cui oggi ricopre la carica di presidente.
Professor Garattini, di recente, alla trasmissione Rai “Petrolio”, ha denunciato un alto disinteresse a livello europeo per le malattie rare, perché ciò avviene?
“Nessuno si occupa di malattie rare in quanto sono appunto rare. Costa molto sviluppare un farmaco e l’industria evidentemente non lo può fare perché si tratta di trovare un farmaco per ogni malattia. Tra l’altro, anche una malattia rara non è detto che sia una sola malattia. Ad esempio, noi ci occupiamo molto di sclerosi laterale amiotrofica che è una patologia costituita da un certo numero di sottogruppi che hanno caratteristiche diverse pur comportando alla fine lo stesso tipo di diagnosi e la cura cambia in base alle cause”.
In sintesi, quindi, a sviluppare una terapia contro una malattia rara non si rientra nell’investimento
“La maggior parte delle malattie rare hanno in tutta Europa mille pazienti, sviluppare un farmaco impegna milioni di euro. Per quanto un farmaco possa costare caro non si rientrerebbe nella spesa per svilupparlo o si rientrerebbe per troppo poco rispetto all’investimento. L’industria guarda molto, ovviamente, all’entità dell’investimento rispetto al profitto che ne ottiene”.
Quale potrebbe essere la soluzione?
“Quello che ho cercato di suggerire, anche alla Commissione Europea, è di fare in modo che ci sia un interesse pubblico a sviluppare nuovi farmaci per i pazienti di malattie rare. Questo si potrebbe fare tramite lo stanziamento di un miliardo di euro all’anno, che è una piccola somma per l’Unione Europea, questo miliardo potrebbe essere utilizzato per costituire venti gruppi, ognuno con la propria specialità e ognuno finanziato con 50 milioni di euro all’anno, che sviluppano farmaci per le mattie rare. Con questi fondi, un ente no profit può avere almeno cento persone, tra chimici, farmacologici, biochimici, clinici eccetera che si occupano di sviluppare un farmaco. I nuovi farmaci che verrebbero messi in commercio avrebbero un prezzo di costo in quanto realizzati tramite fondi pubblici. Questo è il programma che abbiamo suggerito come soluzione a esponenti della Commissione Europea. Questa soluzione, inoltre, non darebbe molto fastidio all’industria perché tanto non si occupa di questo tipo di farmaci”.
Intanto, migliaia di pazienti sono in attesa non soltanto di una cura, ma anche di dare un nome alla propria patologia
“Non bisogna infatti dimenticare che molte delle malattie rare non sono diagnosticate, c’è ancora moltissimo da fare. Per molte malattie rare non sappiamo quali siano le cause e quindi c’è bisogno di studi genetici, c’è bisogno di studi biochimici, c’è bisogno di tanti tipi di studi e naturalmente i soldi non ci sono per farlo perché in Italia la ricerca è ben poco sostenuta. Per dare un’idea, in Italia abbiamo la metà dei ricercatori della media europea perché la maggior parte dei ricercatori se ne vanno in quando le condizioni di lavoro non sono ideali. Noi spendiamo tra pubblico e privato l’1.2% circa del Pil, la media europea è del 2.2%, questo rende un’idea della povertà della nostra ricerca che dai nostri politici viene considerata una spesa, ma la ricerca è un investimento”.
Quanto è importante il mondo della donazione di sangue e plasma per chi è affetto da una malattia rara?
“E’ molto importante, tutto è importante, ma se non ci sono risorse economiche tutto finisce negli archivi e non si fa niente per sviluppare conoscenze”.
Come si evolve l’istituto Mario Negri e quali sfide si prepara ad affrontare nel prossimo futuro?
“Le sfide che abbiamo sono certamente economiche più di ogni altra natura, l’istituto ha una sua solidità con una produzione importante, ha circa 700 persone fra Milano e Bergamo. La sfida futura è una sfida duplice: la prima è quella sul piano delle burocrazia che è enorme, basti pensare a quello che bisogna fare per usare una cavia, bisogna aspettare sei mesi per ottenere l’approvazione che è in contrasto con quello che succede in qualsiasi paese europeo; poi c’è una sfida di carattere economico, perché non si può sperare di sviluppare un istituto basandosi soltanto sulle donazioni, ci deve essere un intervento di natura pubblica”.