Tra i molti primati che Roma può vantare, alcuni dei quali non molto brillanti, c’è anche quello di rappresentare uno dei punti più bassi della donazione di sangue e di plasma nel Paese. Come ben riassunto nell’intervista di Daniele Magrini al professor Andrea Volterrani, la Capitale contribuisce al fabbisogno di sangue e di plasma con performance da città dell’Italia più arretrata, ben lontana dagli indici che invece contraddistinguono non solo il Trentino e il Friuli, ma anche la Toscana e le Marche.
Questo significa che Roma e il Lazio rispondono al proprio fabbisogno ricevendo sangue e plasma dalle regioni più virtuose, ma il dato non è uniforme: Viterbo e Frosinone, per esempio, sono più vicine alla media nazionale. Quindi è proprio Roma il ventre molle, il punto dolente, la maglia nera.
Perché accade questo?
Nella sua intervista a RomaH24, il professor Volterrani spiega che nel misurare lo spirito di comunità, il parametro “donazione di sangue” viene ritenuto uno dei più significativi. E aggiunge che a Roma bisognerebbe ripartire dai quartieri, comunità grandi come città. Difficile dissentire da questa analisi, ma vorrei provare a dire qualcosa in più.
Roma è fatta di una quarantina di quartieri grandi come città piccole, medie e medio-grandi. Un quartiere come il Nomentano (70mila abitanti) è più grande di Mantova o di Trapani. Non parliamo poi di quartieri come Montesacro, Tuscolano o Ostia, grandi quanto capoluoghi di regione. In queste vere e proprie città, la raccolta è generalmente scarsa, lasciata allo spontaneismo e ad iniziative episodiche che le associazioni realizzano con parrocchie, centri sportivi e altri partner del territorio. Manca – come dice Volterrani – quel lavoro sulla riaffermazione valoriale della donazione del sangue che è propria di un rapporto continuo e profondo con le comunità dei quartieri. Perché a Roma le comunità esistono – questa per molti sarà la notizia – e hanno una loro identità, si riconoscono e vengono riconosciute come tali. Solo che bisognerebbe andarci, fare un progetto di comunicazione e coinvolgimento che non fosse episodico o, peggio, emergenziale.
L’errore più comune è quello di guardare a Roma come a una città. Roma non è una città. È qualcosa di più. È come uno stato a sé, una federazione di città (almeno una quarantina), ognuna anche molto diversa dalle altre, con una propria storia, una propria identità e perfino propri codici di comunicazione. Se non si capisce questo, non si farà mai un passo in avanti, perché pensare alla raccolta trattando Roma come un unico, grande agglomerato urbano, significa scontarne tutti i problemi (traffico, distanze, strutture carenti, sovraffollamento) e non beneficiare degli aspetti positivi, a cominciare dal fatto che parliamo di un bacino di tre milioni di persone: più del doppio dell’intero Friuli Venezia-Giulia, dove ogni mille abitanti si raccolgono 24 chili di sangue. Nel Lazio siamo a 7,7 e a Roma va ancora peggio.
I lettori di RomaH24 sanno che sul tema “Roma si salva se riparte dai quartieri”, noi abbiamo battuto fin dall’inizio delle nostre pubblicazioni. Parlavamo di gestione della cosa pubblica e forse l’espressione “salvarsi” per qualcuno sarà sembrata eccessiva. Ma nel caso del sangue e del plasma, ci sarà consentito, il termine “salvarsi” non è affatto eccessivo. In alcuni ospedali romani è già successo che i medici si siano visti costretti a rinviare interventi chirurgici per mancanza di scorte adeguate. Brutte notizie anche sul fronte dei plasmaderivati, i cosiddetti medicinali salvavita che curano malattie rare e particolari patologie. Ecco, se pensiamo a tutto questo, viene da chiedersi come, le autorità sanitarie, e le stesse associazioni, possano continuare a ignorare il caso Roma.
LEGGI: Roma, sangue e plasma sempre più scarsi
LEGGI: l’intervista al professor Volterrani
GUARDA: la campagna di DonatoriH24