Liliana Segre ad Arezzo: un racconto di vita che esprime valori collettivi

2020-10-14T10:25:34+02:00 12 Ottobre 2020|Attualità|
di Giancarlo Liviano D'Arcangelo

Un cancello simbolico, da abbattere e superare. L’ultimo dei tanti cancelli superati da Liliana Segre, senatrice a vita, sopravvissuta ad Auschwitz e impegnata oggi 9 ottobre 2020 nella sua ultima partecipazione pubblica. Un messaggio rivolto soprattutto ai giovani, che punta a spiegare come nell’arco di una vita intera sia impossibile evitare sofferenza, momenti difficili, ferite e conflitti, ma che tutto questo può essere superato.

Ad Arezzo, alla Cittadella della Pace, organizzato dall’associazione Rondine, è andato in scena un momento della storia repubblicana che non sarà semplice scordare. Tantissimi patrocini istituzionali, a partire da Avis nazionale, e tantissime le autorità presenti, dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, il presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico. E ancora, Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Luigi Di Maio, ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione, Luciana Lamorgese, ministra dell’Interno, il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, più una delegazione di 150 studenti provenienti da tutta Italia in rappresentanza della scuola italiana.

Dopo l’introduzione di Ferruccio De Bortoli, che ha spiegato come l’assenza di memoria nella cultura di un paese metta a rischio il futuro stesso di quel paese, e che distorsioni storiche e negazionismi altro non sono che una ripetizione simbolica dei crimini contro gli innocenti, Maria Elisabetta Alberti Casellati ha ricordato il primo discorso della Segre in parlamento, fondato su parole di impegno e sensibilizzazione allo spirito civico, e ha insistito sulla necessità di sancire l’importanza della memoria contro il vuoto e la devastazione, augurandosi che i giovani possano raccogliere il testimone e saper cogliere criticamente i nemici dell’oggi. Dello stesso tenore l’intervento del presidente della camera Roberto Fico, che ha promesso di portare avanti, attraverso il proprio ruolo istituzionale, il messaggio incarnato dalla Segre, una grande responsabilità per la Repubblica italiana e per tutti i giovani che guideranno il paese nel futuro.

Interrogare le nostre coscienze e iniziare a prendere posizioni chiare affinché la testimonianza concreta che è stata la vita delle Segre continui a essere d’esempio, è stato l’appello del presidente del consiglio Giuseppe Conte, breve e conciso nel suo intervento, concetti ripresi subito dopo da David Sassoli, presidente del Parlamento Europeo, che ha ricordato il discorso della Segre sulla forza della vita durate l’incontro europeo nella Giornata della Memoria. Franco Vaccari, presidente di Rondine, ha ribadito l’importanza del simbolo Segre per la coscienza e la memoria collettiva, “un bene comune” di tutta la comunità internazionale, e ha anticipato il vero momento chiave dell’evento, ovvero l’intensissima, e purtroppo ultima, testimonianza di vita della Segre, di cui proponiamo un ampio riassunto.

La senatrice a vita Liliana Segre

“Oggi si chiude un percorso trentennale di interventi pubblici, e ho scelto di farlo qui a Rondine perché all’inizio del mio percorso questa realtà di persone che credevano nel cambiamento e nell’utopia mi aveva davvero colpito. Ringrazio le istituzioni, che nonostante le tantissime cose da fare hanno deciso di essere qui. Tuttavia chi voglio davvero ringraziare sono i ragazzi, tutti i miei nipoti ideali, nei quali vedo il ricordo struggente di ciò che ero io da ragazzina. So che è difficile immaginare ragazzina una donna di 90 anni, e ripenso a quel giorno di settembre nel lontano 1938 che mi ha cambiata per sempre. Io da quel giorno diventai “l’altra”, a 8 anni non ho più potuto andare a scuola. Ero a tavola con mio papà e i miei nonni e mi dissero che non ci potevo più andare. A me piaceva molto andare a scuola, e quando chiesi perché mi dissero che ero stata espulsa. Domandai ancora il perché, e visto che non mi si poteva dire che avevo fatto qualcosa di grave mi spiegarono la verità. Siamo ebrei e ci sono delle nuove leggi. Una delle cose più crudeli delle leggi razziali fu di fare sentire i bambini invisibili, perché in molti non si accorsero che alcuni banchi erano vuoti. Quella lunga e triste storia della minoranza ebraica fu all’insegna della paura. Molti amici parenti andarono all’estero e si salvarono, altri come noi restarono, nella speranza che in fondo in Italia non sarebbe successo niente. Io stavo attaccata alla radio dei vicini perché noi non l’avevamo, e riportavo i successi dell’esercito nazista, che stava riscuotendo vittorie rapide ovunque. L’8 settembre quell’esercito invase anche l’Italia. In quel momento si iniziò a parlare di deportazione e ci fu la fuga, ma fuggirono solo quelli che erano preparati e avevano appigli altrove. Noi restammo. Venne un amico indimenticabile e disse la bambina viene con me. Due famiglie mi nascosero, e io non capì l’importanza di quel gesto. Non ero nemmeno gentile con loro, ma poi ho capito. Quando sono entrata in senato, in questa vita pazzesca, dissi che io sono stata clandestina. Ci trovammo in montagna è fummo arrestati da finanzieri disperati di arrestarci ma che non potevano fare altrimenti. Mio padre aveva dei francobolli di valore e li buttò nel fango. Arrivammo al carcere di Varese trattati come delinquenti, e la domanda senza riposta fu la stessa dell’espulsione da scuola. Perché? La deportazione fu terribile. Attraversammo la Milano indifferente con le finestre chiuse, e fummo caricati con violenza sui vagoni alla stazione centrale. C’era paglia nei vagoni e c’era un secchio per decine di persone, non c’era luce né acqua, c’era solo la vicinanza senza parole con quelli che amavi. Il viaggio durò una settimana, piangemmo e ci disperammo, nenie continue di chi piangeva più forte degli altri, poi le preghiere e infine il silenzio, prima di scendere a bastonate. C’erano le lingue schiavizzate e le lingue dei padroni. Ero una ragazzina terrorizzata e stavo attaccata a mio padre con altri prigionieri incaricati di dividere le famiglie. Io facevo dei sorrisini ma era quello il momento, il momento che divideva la vita e la morte. Quello in cui si veniva scelti. Lasciai la banchina nell’indifferenza, e a 13 anni fui scelta, mentre altre ragazze della mia età e così mio papà andarono ai gas. Io andavo dietro alle altre trenta ragazze che con me furono scelte per il lager. Una distesa di baracche, la nave per terra e decine di donne ischeletrite che portavano pietre o scavavano buche con le teste rasate. Cominciammo a capire che dovevamo dimenticare il nostro nome per imparare il numero che ci fu tatuato sul braccio, fummo spogliate e ci tolsero tutto, non ci lasciarono né un fazzoletto, né un libro, né nulla. Nessuno riusciva a capire cos’era quel posto con le ciminiere in fondo al vialone. Quando sapemmo che chi non lavorare andava nelle camere a gas, non ci credevamo. Era impensabile, credevamo di essere in un manicomio. Non racconto mai i dettagli della prigionia, ci sono i libri. Chi mi chiede della solidarietà tra noi donne prigioniere, resta deluso. Chi è deprivato di tutto tranne che del proprio corpo finisce per diventare quello che vogliono gli aguzzini: egoista, disumana. Si aveva paura di fare amicizia, perché gli amici si potevano perdere all’improvviso. Diventai operaia schiava in una fabbrica di munizioni ed era una grande fortuna, perché si usciva per camminare, si sentiva il rumore delle campane, e nel lavoro trovavamo una ragione di passare la giornata. La notte dormivamo per la stanchezza, e perché non volevamo sentire i pianti di chi veniva mandato al gas. Io non volevo essere lì, ma ero lì. Bisognava estraniarsi. Io sono viva per caso, ma tutti lì sceglievano comunque la vita. A chi mi chiede se ho perdonato rispondo, no, non ho perdonato, non ne ho la forza. Quando stavano per arrivare i russi iniziò la marcia della morte, centinaia di chilometri, mesi di marcia inarrestabile, una fatica terribile e chi cadeva rischiava un proiettile nella testa. Passammo per la Francia, finché non vedemmo qualcosa di incedibile: le guardie si mettevano in borghese e scacciavano i cani poliziotti, perché avevano paura di noi, volevano andare nella zona americana. Il capitano che stava vicino a me aveva un nerbo di bue e distribuiva nerbate a noi che eravamo ormai insensibili al dolore, e di colpo si mise in mutande, buttò la divisa e la pistola, aveva paura. Io che volevo vendetta pensai di raccoglierla e sparargli. Fu un a attimo, importantissimo e decisivo, perché capì che non potevo riuscire a ucciderlo, e che non ero come il mio assassino. Da quel momento sono diventata la donna libera e di pace con cui ho convissuto fino ad adesso.”

La testimonianza della Segre, straordinaria e toccante, per la sua portata storica, valoriale, e per l’assoluto rifiuto della retorica, è sicuramente uno dei momenti collettivi più belli di questa annata così complessa. Parole che si spera possano arrivare a più persone possibili nell’ottica di una rivalutazione di sentimento come la solidarietà, la generosità e la responsabilità verso il prossimo. Valori che la comunità di donatori italiana conosce molto bene e che è bene trasmettere con ogni mezzo alle nuove generazioni.