La donazione volontaria e non remunerata garantisce la sicurezza sulla qualità del sangue che viene trasfuso nei pazienti. Lo studio coordinato dal Centro nazionale sangue conferma come, grazie al nostro sistema sangue, nello specifico, sia praticamente azzerato il rischio di contrarre un’infezione da Hiv durante una trasfusione.
In base al metodo di calcolo utilizzato, le probabilità di venire infettati nel nostro Paese sono comprese tra una su due milioni e una su 45 milioni, un risultato che, come ha spiegato lo stesso direttore del Cns, Giancarlo Maria Liumbruno, è frutto dei “test a cui viene sottoposto il sangue donato che rappresentano uno dei pilastri che garantiscono la sua sicurezza, insieme al questionario e al colloquio con il medico, che riducono la possibilità che doni una persona che potrebbe aver avuto un comportamento a rischio”. La prima garanzia, tuttavia, arriva proprio dalla scelta etica di utilizzare sangue proveniente solo da donazioni volontarie, anonime, periodiche e non remunerate. E il motivo è facilmente intuibile. Spieghiamo meglio.
Non donando “a vantaggio” di qualcuno in particolare, e non ricevendo alcuna ricompensa per il proprio gesto, i donatori italiani si presentano nei centri trasfusionali con la sola spinta dell’altruismo, senza secondi fini particolari. Prima di donare, poi, viene compilato un questionario che contiene una serie di domande finalizzate a conoscere e approfondire gli eventuali comportamenti a rischio che può aver tenuto il donatore, come malattie pregresse o terapie in corso. In più, la visita con il medico stabilirà, insieme alla buona riuscita del questionario, l’idoneità o meno alla donazione. Ma non solo. Anche una volta ottenuto il via libera, le sacche raccolte vengono sottoposte ai test per verificare la loro immunità a virus come Hiv, Hbv o Hcv, nonché, in determinati periodi dell’anno, al West Nile.
Lo studio promosso dal Cns, realizzato in collaborazione con Istituto superiore di sanità e dipartimento di Scienze Biomediche dell’università di Milano, ha interessato donatori positivi ai test su Hiv, epatite B e C, e ha analizzato i campioni di sangue raccolti tra il 2009 e il 2018. Il rischio, cosiddetto, “residuo”, cioè la possibilità che avvenga un contagio durante una trasfusione, è risultato in drastica diminuzione nei 10 anni di osservazione: per l’Hcv (l’epatite C) si è passati da un’unità su 10 milioni a una su 15-45 milioni di donazioni, per l’Hiv da una su 1,2 milioni a una su 2-45 milioni, mentre per l’Hbv (l’epatite B) da un’unità su 625mila a una su 1,8-2,6 milioni.
Fondamentali, in base a quanto spiega il rapporto, sono stati i test “che si basano su tecniche di biologia molecolare (i Nat test, quelli che per esempio vengono disposti per il West Nile Virus, ndr), introdotti nello screening dei donatori negli ultimi anni”, che hanno permesso di ridurre il cosiddetto “periodo finestra” in cui il virus, pur presente nell’organismo, non veniva trovato con i comuni esami. Questo ha permesso di intercettare anche alcuni donatori positivi sfuggiti al colloquio preliminare.