Realizzare un super sensore che permetta, attraverso un esame del plasma, di individuare i biomarcatori utili a diagnosticare precocemente i sintomi del morbo di Alzheimer. È l’obiettivo del progetto SensApp (Super-sensitive detection of Alzheimer’s disease biomarkers in plasma by an innovative droplet split-and-stack approach), finanziato con oltre 3 milioni di euro dalla Commissione Europea, nell’ambito del Fet Open (una serie di bandi europei che premiano lo sviluppo di tecnologie completamente nuove) del programma Horizon 2020.
A dirigere quello che è un vero e proprio consorzio volto alla realizzazione di questo nuovo strumento, la Commissione ha voluto l’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti (Isasi) del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche). Più precisamente, la dottoressa Simonetta Grilli, ricercatrice Cnr-Isasi, che a DonatoriH24 ha spiegato origini, sviluppo e obiettivi futuri del progetto del super sensore.
Dottoressa, cerchiamo di spiegare cos’è questo sensore e come dovrebbe funzionare
Si tratta di un macchinario da banco di circa mezzo metro di larghezza, non troppo diverso dalle strumentazioni che già vengono utilizzate nei laboratori di diagnostica, come ad esempio il biofotometro (un apparecchio usato nei laboratori di biotecnologia che permette la quantificazione di dna, rna, densità di cellule batteriche e proteine mediante colorimetria, ndr). L’obiettivo è quello di realizzare uno strumento che permetta di riconoscere i biomarcatori del morbo di Alzheimer dall’esame del plasma. Il sensore funziona per mezzo di campi elettrici che concentrano le molecole su un substrato sul quale si effettua l’indagine immunologica tradizionale. Si effettua un prelievo di sangue periferico per poi estrarne il plasma e, a quel punto, cercare le proteine che possono aiutarci a individuare precocemente la malattia.
Possiamo parlare di un’innovazione che faciliterebbe il percorso diagnostico quindi?
Il nostro obiettivo è proprio quello, realizzare uno strumento che riduca i tempi e permetta di intervenire il prima possibile su questa patologia. Anche perché, non dobbiamo dimenticare, che ad oggi, una diagnosi certa del morbo di Alzheimer non esiste e molto spesso, anche dopo la visita neurologica, i dati raccolti possono risultare contrastanti e confondersi con altre forme di demenza. Da qui, di conseguenza, vengono avviate terapie sbagliate.
Il sensore, oltretutto, permetterebbe tipologie di indagini meno invasive
Altro punto su cui noi puntiamo molto. Una volta ultimato il progetto, avremmo la possibilità di riconoscere un inizio eventuale di Alzheimer grazie a un semplicissimo esame del sangue. Oggi le proteine possono essere riconosciute anche attraverso il prelievo del liquido spinale, un intervento però molto più fastidioso e, non dimentichiamo, costoso per il Servizio sanitario nazionale, visto che prevede l’ospedalizzazione del paziente. In più, quando parliamo di questo tipo di malattia, ci rivolgiamo a persone che, per la stragrande maggioranza dei casi, sono piuttosto avanti con l’età, motivo ulteriore per garantire loro test meno problematici possibili.
Quando è iniziata la ricerca e quanto durerà prima che possa essere ultimata?
Gli studi sono partiti il primo gennaio e saranno necessari tre anni almeno per realizzare il prototipo del sensore. Poi, nei successivi due anni, verrà pianificata la commercializzazione o, come diciamo noi, la mass production (la produzione di massa, ndr), così da garantire a ogni struttura sanitaria pubblica la possibilità di avere questo macchinario nei propri laboratori diagnostici.
Quali sono i costi di un progetto di questo tipo?
La Commissione Europea ha stanziato oltre 3 milioni di euro per questi bandi a cui noi abbiamo partecipato, finalizzati allo sviluppo di nuove tecnologie. Il nostro progetto è stato selezionato fra le 375 proposte che erano state presentate: per quanto riguarda il sensore in particolare, è ancora presto forse per dirlo, ma riteniamo che possa raggiungere il costo di poche migliaia di euro. Una spesa quindi perfettamente sostenibile.
Come avviene il lavoro di ricerca con gli altri partner che vi affiancano nel consorzio?
Insieme a un’altra realtà italiana, l’Irccs Bonino Pulejo di Messina, collaboriamo con due istituti finlandesi, il VTT Technical Research Centre of Finland e il Ginolis, uno belga, il Vrije University of Bruxelles, e uno austriaco, la University of Linz. Ognuno di noi effettua quotidianamente indagini e ricerche nei propri laboratori per realizzare i building blocks, cioè le componenti di base su cui dovrà contare il sensore. Poi, in genere ogni cinque o sei mesi, ci riuniamo per valutare a che punto sono arrivati gli studi di ognuno.
Come dovrebbe comportarsi un paziente che volesse sottoporsi a un esame attraverso il sensore?
L’iter da seguire non deve mai prescindere dal parere di un neurologo che, dopo una visita preliminare, avrebbe a quel punto uno strumento efficace a disposizione per aiutare il paziente a ottenere una diagnosi certa. Il nostro obiettivo è quello di farlo rientrare tra gli esami di routine o di prevenzione, visto che, come detto, stiamo parlando di un intervento per nulla invasivo.
Il sensore garantirebbe una diagnosi precoce: ma di che tempi parliamo precisamente?
Stabilirlo con esattezza, a oggi, non è ancora possibile. Tuttavia, più che sul tempo, ragioniamo sulla quantità di picogrammi di Beta-amiloide (la proteina associata all’insorgenza della malattia di Alzheimer, ndr) per millilitro. Possiamo azzardare che, con il sensore, si possa arrivare a una diagnosi circa 10 anni prima che la malattia si manifesti completamente, un lasso di tempo importante per pianificare una serie di terapie e interventi finalizzati ad attenuare gli effetti dell’Alzheimer e a tutelare il più possibile la qualità della vita del paziente. Tutto questo, proprio grazie all’indagine precoce che, incrociata con le ricerche effettuate in ambito terapeutico, consentirebbe di adottare terapie innovative e più efficaci.