Una proteina del sangue che riesce a individuare, con anni di anticipo, il morbo di Alzheimer prima che si manifestino i sintomi iniziali. È questo il risultato della ricerca, spiegata sulla rivista Nature Medicine, che è stata effettuata da un’équipe composta da studiosi dell’università di Washington, del centro tedesco per le malattie neurodegenerative (Dzne), dell’istituto Hertie per la ricerca clinica sul cervello (Hih) e dell’università di Tubinga.
Dall’esame del sangue effettuato, i ricercatori sono riusciti a capire che la proteina filamentosa, chiamata Nfl, che si trova all’interno dei neuroni, in caso di danno o morte delle cellule nervose, si riversa nel liquido cerebrospinale e poi nel sangue. Lo studio, che ha coinvolto oltre 400 persone, di cui 247 portatori dei geni dell’Alzheimer precoce e 162 familiari sani, ha permesso non solo di dimostrare che l’aumento della Nfl rispecchia esattamente il danno cerebrale, ma anche di stabilire la sua evoluzione futura.
Un risultato che, in prospettiva, potrebbe far ben sperare anche qui in Italia. In base al Rapporto Mondiale Alzheimer 2018, infatti, nel nostro paese si stimano 1.241.000 casi (che diventeranno 1.609.000 nel 2030 e 2.272.000 nel 2050). Un dato che, se ampliato a livello globale, arriva fino a 47 milioni di persone. In sostanza, ogni 3 secondi, nel mondo, una persona sviluppa una forma di demenza, tanto da farla diventare la settima causa di morte. Anche perché una cura, ancora oggi, non esiste. Molti Paesi, inoltre, non sono ancora dotati di strumenti diagnostici adeguati, di facile accesso agli studi clinici, di medici e ricercatori specializzati. Come già rivelava il Rapporto Mondiale Alzheimer 2016, “la maggior parte delle persone con demenza nel mondo deve ancora ricevere una diagnosi, oltre a un’assistenza sanitaria completa e continua”.