«Questo splendido Paese ha fatto molto per me e non sarò mai abbastanza grato per avermi salvato e offerto la possibilità di vivere in un modo dignitoso. In questo momento non ho altro, posso donare solo il mio sangue e mi sono proposto con orgoglio». Sono le parole di Demba Traoré, giovane immigrato di origini malesi arrivato in Italia dopo mesi di sofferenze nel deserto, nelle carceri libiche e dopo una lunga e spaventosa traversata per mare.
Come lui molti altri migranti che hanno subito soprusi, rischiato la vita e sono arrivati in Italia esprimono il desiderio di potersi sdebitare con il Paese che li ha accolti. E uno dei modi è il dono del sangue. Nel 2004 erano circa venticinquemila, nel 2010 quarantamila e nel 2014 tra i centoventicinque e i centocinquantamila, nel 2018 centotrentatremila e trecento : in quattordici anni il numero dei donatori stranieri in Italia si è più che sestuplicato.
Parecchi se pensiamo che nel nostro Paese i donatori di sangue sono un milione e settecentoquarantamila, circa il 4,4 per cento della popolazione potenzialmente idonea. Quindi un donatore su dieci non è italiano.
Considerando che la popolazione italiana invecchia e di conseguenza cala il numero di donatori, in futuro i donatori stranieri potrebbero decisamente fare la differenza.
A PRATO CON L’ASSOCIAZIONE AL MAGHREB
Un altro esempio di solidarietà viene da Prato, in particolare dell’associazione Al-Maghreb che opera da tantissimi anni per l’inclusione e la solidarietà tra cittadini italiani e marocchini. Il presidente, Mazigh Abdelmoula, da qualche tempo sta tentando di coinvolgere gli iscritti e connazionali a donare il proprio sangue all’Ospedale Santo Stefano di Prato.
«Il sabato e la domenica organizziamo molti incontri con i fedeli in cui parliamo dell’importanza della donazione di sangue», racconta a Donatorih24 Mazigh Abdelmoula, che con soddisfazione aggiunge: «si è convinto anche l’Imam del Centro Islamico di Via Gherardacci. L’Imam per la comunità di fedeli è sempre un esempio da seguire. Oggi lavoriamo insieme a queste iniziative di sensibilizzazione».
Le difficoltà a Prato come in altri centri, restano però molte: problemi linguistici, visto che non sempre sono a disposizione traduttori e mediatori culturali; interdizioni definitive per malattie infettive presenti nei paesi di provenienza senza contare la sfiducia da parte dei datori di lavoro a concedere permessi a dipendenti stranieri che vogliono donare il sangue: sembra assurdo, ma spesso non credono alla buona fede dei lavoratori.
LECCO, 200 DONATORI IMMIGRATI “FERMI”
Quest’ultima difficoltà è stata riscontrata in particolare dall’Avis provinciale di Lecco. L’associazione insieme ad Anolf (associazione nazionale oltre le frontiere) Lecco, Avis comunale Lecco e il reparto di Medicina trasfusionale dell’Ospedale Manzoni, dal 2010 ha messo in atto il progetto “Il sangue non ha colore”. Il fine è stato sempre quello di sensibilizzare e raccogliere donatori stranieri sul territorio della provincia, ma ha trovato molte difficoltà dal lato dei datori di lavoro. «La maggior parte dei cittadini stranieri che vuole donare il sangue vive in Italia con permessi di soggiorno temporanei – spiega a DonatoriH24 Bruno Gandolfi, presidente di Avis provinciale Lecco – e per questo teme di perdere il posto di lavoro una volta chiesto il permesso lavorativo». D’altra parte «alcuni datori di lavoro non vedono di buon occhio un dipendente che si assenta per donare il sangue, a maggior ragione se straniero».
E così, spiega Bruno Gandolfi, ora a Lecco ci sono circa duecento donatori di origine straniera fermi, impossibilitati a donare. «Il centro trasfusionale di Lecco è più che ben fornito di sangue: se la popolazione di donatori su scala nazionale si situa intorno al 4 per cento, a Lecco è dell’8 per cento». Lecco quindi «esporta il suo sangue, anche per questo non c’è interesse a incentivare e facilitare le donazioni da parte dei cittadini stranieri». Secondo Gandolfi, il poco interesse ad aumentare le donazioni è probabilmente il motivo per cui il centro trasfusionale dell’ospedale Manzoni fatica ad essere aperto il sabato, giorno in cui i donatori potrebbero sottoporsi al prelievo senza dover chiedere un permesso lavorativo. «Per risolvere questo problema, avevamo pensato di aprire nella sede Avis un centro trasfusionale, ma i costi sono troppo elevati».
UNA RISORSA SPRECATA
Quindi, una ricchezza, quella dei donatori stranieri, spesso sprecata. A studiarne a lungo le dinamiche e le modalità è la dottoressa Annamaria Fantauzzi, ricercatrice e docente di Antropologia medica e culturale all’Università di Torino. «Il senso di sdebitamento all’accoglienza da parte degli stranieri che donano il sangue è reale – spiega Annamaria Fantauzzi – C’è effettivamente la volontà di essere proattivi in un paese che non è il proprio e che accoglie, questo aumenta poi la sensazione di essere parte di una comunità, quella italiana, e di conseguenza stimola una maggiore integrazione».
La professoressa spiega poi come nella comunità di religione musulmana la pratica della donazione sia particolarmente accolta. «Chiunque uccida un uomo sarà come se avesse ucciso l’umanità intera, questo recita la quinta Sura del Corano. La donazione fa parte dei buoni consigli della legge coranica per fare del bene comune». Il dono del sangue diventa così un atto civico oltre che religioso e, in un paese straniero, di sdebitamento per l’accoglienza.
«Nella cultura islamica il sangue è carico di un’evidente dicotomia: è sostanza halal (lecita) quando è invisibile, cioè contenuto nel corpo, perché rappresenta l’energia e il veicolo della vita; diventa haram (impura), soprattutto quando è visibile e fuoriesce dal corpo (emorragia, deflorazione, rituali sacrificali, macellazione della carne, ciclo mestruale)», sottolinea Annamaria Fantauzzi. E aggiunge: «Nella donazione il sangue si connota come sostanza halal, quando attraversa una canula e quindi non entra in contatto con l’esterno e con ciò che può contaminarlo».
Nelle sue ricerche Fantauzzi ha riscontrato però un’altra difficoltà, quella dell’accettazione da parte degli italiani della “donazione straniera”. In sostanza, secondo l’antropologa, gli italiani che si trovano di fronte a un’immigrato che dona il proprio sangue fanno fatica ad accettarlo perché non vogliono sentire riconoscenza verso uno straniero. «C’è una difficoltà nell’accettare che un immigrato doni il suo sangue, perché quella persona non sarà più solamente un corpo che lavora ma qualcosa in più. Gli immigrati che donano hanno una percezione dell’appartenenza alla cittadinanza maggiore, il passaggio del sangue simbolicamente rappresenta un legame di unione, di fratellanza».
Ecco che la donazione del sangue da parte dei cittadini immigrati può essere letta come «una ricchezza, condivisione di valori tra individui che, senza distinzioni, si riconoscono semplicemente nel ruolo di donatori». Per questo, secondo l’antropologa, coinvolgere gli immigrati presenti in Italia nella donazione di sangue significa «considerare anche l’eventualità che possano essere loro stessi ad avere bisogno di sangue e permettere loro di diventare consapevoli dei servizi e delle opportunità che il territorio offre e del modo in cui possono goderne. Ma perché questo avvenga, occorre superare molti ostacoli, una sfida a cui sono chiamate le istituzioni, così come le associazioni del settore e le stesse comunità di immigrati».