Donatori in calo, esodo dei medici e orari poco flessibili
Ecco perché il sistema sangue del Veneto è in crisi

2018-08-12T10:10:12+02:00 10 Agosto 2018|Attualità|
di Tiziana Barrucci

«Donate prima di andare in vacanza». E’ l’appello che in questi giorni fanno tutti gli attori in campo del mondo della donazione, dai centri trasfusionali, alle Asl, passando per  le associazioni di volontariato. L’estate è un periodo di carenza di sangue e bisogna attrezzarsi. Ma le difficoltà e criticità del mondo del sistema sangue sono anche altre, più strutturali.

CALO DEI DONATORI

Come quella della carenza dei donatori, della carenza di personale sanitario o, peggio ancora, di una svalutazione della professione del medico trasfusionista. Criticità lampanti nella Regione Veneta, e di cui anche recentemente hanno discusso l’Avis locale e il sindacato medico italiano regionale, Anaoo Assomed (associazione medici e dirigenti del Ssn) Veneto .

Il primo problema è sicuramente quello della carenza strutturale di donatori. «Oggi la qualità della trasfusionale e anche dei farmaci derivati dal plasma è un elemento di certezza – spiega a Donatorih24 Fabio Sgarabottolo presidente Fidas Veneto nonché presidente e Ceo di Eos, società di strumenti per la diagnostica – ma c’è un grande problema: è difficile far passare il messaggio solidale. Una volta esistevano modelli culturali diversi che ruotavano attorno a dei valori che oggi sono meno rispettati.  I ragazzi non ritengono la solidarietà una priorità. Inoltre il giusto inasprimento dei criteri di accessibilità alla donazione rende tutto più complesso».

UN MEDICO DI “SERIE B”

Si concentra invece sulla carenza del personale medico Giorgio Brunello, presidente Avis Veneto: «Mancano i medici trasfusionisti – dice a Donatorih24 – e questo non ci permette, ad esempio, di tenere i centri aperti durante tutta la giornata. Senza contare che tra i medici la professione del trasfusionista è vista oggi come una professione di “serie B”. Basta pensare che può accadere che si indica un concorso e non ci siano candidati».

IL PROBLEMA DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE

Esiste inoltre un grave problema di formazione professionale all’interno del mondo trasfusionale. La medicina trasfusionale non è riconosciuta come scuola di specializzazione nelle facoltà di medicina. E questa è una questione centrale, come ha spiegato a Donatorih24 Pierluigi Berti, presidente della Società italiana di medicina trasfusionale e immunoematologia (Simti, realtà che ha tra i suoi scopi principali la promozione e l’organizzazione di servizi trasfusionali): da un lato perché nel corso di laurea in medicina si parla molto poco della realtà trasfusionale e dall’altro perché non esiste una scuola di specializzazione di medicina trasfusionale. Esiste una specializzazione di ematologia, con caratteristiche più cliniche e una specializzazione in patologia clinica che ha un’impronta meno clinica e più di laboratorio.

«In pochi scelgono di diventare medici immunoematologi perché l’impressione è che si stia tornando al passato, quando i Centri di raccolta del sangue erano nei sottoscala – afferma ancora Brunello – mentre la complessità odierna della medicina trasfusionale imporrebbe tutt’altra considerazione».

Nella sua inchiesta “Sale l’allarme in Veneto, si prospetta calo delle donazioni, ma… chi raccoglierà se calano anche medici e operatori?” Beppe Castellano, direttore responsabile della rivista Avis Dono&Vita è molto chiaro «Altro che aprire i Centri trasfusionali nel pomeriggio per ovviare al calo delle donazioni! Qua e là per il Veneto, pur considerata (basta sentire che cosa dicono di noi fuori Regione) ancora un’isola felice per quanto riguarda la sanità pubblica, si assiste invece a un diffuso stillicidio di riduzioni di orari dei Centri trasfusionali anche nei giorni “normali”. Un’ora in meno tagliata qui, un’ora in meno tagliata là. Un sabato di chiusura in più al mese da una parte, una domenica negata da un’altra…». E prosegue:  «E poi gli esami di idoneità che – magari fossero solo trenta i giorni – da alcune parti arrivano dopo un mese e mezzo… quando va bene. E il “giovane” aspirante donatore, nel frattempo, si è quasi del tutto dimenticato di quell’empito d’entusiasmo che lo aveva portato a presentarsi una mattina in Centro trasfusionale. Magari con un gruppo di compagni di scuola, convinti a fare il grande gesto quel giorno in cui l’Avis era andata a trovarli in 5ª B».

COMPETENZE RICHIESTE: IN PRIMIS INTERDISCIPLINARIETA’

Eppure i centri trasfusionali hanno specificità importanti e la medicina immunotrasfusionale è una branca che richiede professionalità, competenze, conoscenze scientifiche e responsabilità sempre più impegnative e interdisciplinati.  Lo ricorda il direttore del centro Nazionale sangue, Giancarlo Maria Liumbruno: «I centri trasfusionali producono materia prima per i medicinali come il plasma; i farmaci biologici che sono i globuli rossi, le piastrine e il plasma per uso clinico. Producono prestazioni assistenziali, cioè trattano i malati. E in più, a differenza di altre strutture che magari sono nello stesso dipartimento, devono rispondere a norme di accreditamento europeo di matrice europea e farmaceutica, le GPG (Good Practice Guidelines) che sono in pratica le Gmp (Good manufacturing practices) delle strutture trasfusionali. Inoltre le strutture trasfusionali sono sottoposte a ispezioni ogni due anni perché sia garantito che la materia prima che forniscono alle industrie di plasmaderivazione sia conforme alle norme del farmaco».

I CENTRI TRASFUSIONALI E IL DIFFICILE RAPPORTO CON LE ASL

Una complessità che mal si sposa con il fatto che le strutture trasfusionali italiane siano spesso inserite in dipartimenti non trasfusionali, e quindi non competenti in materia. Senza contare che i centri  trasfusionali necessiterebbero di un governo nazionale e sovraziendale, in nome dell’autosufficienza, ma invece troppo spesso oramai devono rispondere a politiche aziendali locali (delle Asl di riferimento) che non favoriscono tale necessità.

Certo è che la necessità di “risparmio” delle Aziende socio sanitarie impone una razionalizzazione. Eppure bisognerebbe mettere in moto meccanismi precauzionali. «Il bisogno di razionalizzare e di rendere più efficiente la rete trasfusionale – spiega Brunello  – non può andare a discapito della capacità del sistema pubblico di garantire livelli e diffusione dell’attività di raccolta, specie sul territorio e di medicina trasfusionale presso la rete ospedaliera. Corriamo un grosso rischio, quello che il medico trasfusionista, diventi un medico che fa solo raccolta».

I MEDICI VANNO VIA

E poi c’è l’esodo dei medici. L’Anaao Veneto da tempo mette in guardia sulla migrazione verso il privato dei medici trasfusionisti. «In Veneto, in questi ultimi mesi – dichiara Adriano Benazzato, Segretario regionale Anaao Assomed – sono passati dal pubblico al privato oltre 50 medici, altri sono andati in pensione senza essere sostituiti, pochi hanno partecipato ai concorsi pubblici, alcuni andati deserti. Nei prossimi cinque anni lasceranno il Servizio sanitario regionale, per motivi anagrafici, molti dirigenti medici determinando un saldo negativo di circa 1.000 medici al 2022».

Si tratta di una vera e propria  «crisi » dell’intero sistema sangue, le cui ripercussioni mettono a dura prova la generosità di migliaia di veneti. Sono oramai all’ordine del giorno, fa sapere il sindacato, le lamentele e le segnalazioni negative da parte di donatori, dirigenti Avis e professionisti del settore. Insomma, le riduzioni di orari e di personale, le lunghe attese per la refertazione degli esami e per donare, ma anche l’aumento delle responsabilità per i pochi medici rimasti, stanno minando la tenuta dell’intero sistema trasfusionale.

Secondo il coordinatore degli assessori regionali alla Sanità nella Conferenza Stato-Regioni, il piemontese Antonio Saitta, già dall’anno accademico 2017/2018 mancheranno all’appello quasi 2500 medici specialisti di varie discipline visto che l’offerta di posti nelle Scuole di specializzazione del Miur corrispondono per l’anno accademico 2017/18 a solo 6200, mentre le necessità espresse dalle Regioni  sarebbero pari a 8.569 unità.

Dato confermato anche dall’ultimo rapporto sulla materia di Anaao-Assomed, datato 2016. Secondo il documento (scaricalo qui) nei prossimi 10 anni, il Servizio sanitario nazionale pubblico avrà un’emorragia notevole data dal gap fra specialisti neo laureati e pensionamenti.  A fronte di una media di 47.500 dipendenti del Ssn che cesseranno solo 40mila nei prossimi 10 anni potrebbero subentrare. “Potrebbero” perché, dopo aver conseguito laurea, specializzazione ed esperienza in Italia, molti potrebbero anche decidere di andare all’estero.