Berti, presidente Simti: «Sistema in difficoltà»
L’allarme su donazioni e autosufficienza

2019-01-24T17:27:55+01:00 22 Maggio 2018|Attualità|

«Non sono così sicuro che il sistema trasfusionale di oggi riuscirebbe a rispondere in maniera del tutto efficiente se si trovasse di fronte a una maxi emergenza nazionale.

Va diritto al punto Pierluigi Berti, presidente della Società italiana di Medicina Trasfusionale e Immunoematologia (Simti, realtà che ha tra i suoi scopi principali la promozione e l’organizzazione di servizi trasfusionali). In un’intervista a DonatoriH24, Berti parla di un sistema ormai in grande difficoltà, spesso a causa di un contesto che non lo sostiene ma anche di crisi delle donazioni, di giovani, formazione professionale, ricambio generazionale. E presenta alcune anticipazioni del 43° convegno nazionale di studi di medicina trasfusionale che si terrà a Genova dal 23 al 25 maggio.

Dottore, le sue parole rispetto a un’eventuale maxi emergenza non sono del tutto rassicuranti, vuole spiegarci meglio?

Abbiamo risposto in maniera adeguata agli ultimi terremoti, all’emergenza Chikungunya, ai disastri ferroviari in Puglia. Il sistema della bacheca virtuale di emocomponenti disponibili ha funzionato, ma di fronte ad una crisi più grande le cose potrebbero essere diverse. Dobbiamo far capire la realtà che stiamo vivendo.

Cosa intende esattamente?

Ciò che il mondo trasfusionale è stato chiamato a fare, intendo dire i medici, i biologi e tutti i professionisti di tale realtà, è stato uno sforzo importante. Siamo stati chiamati ad adeguare le strutture alle direttive europee volte giustamente a una maggiore tutela dei cittadini e abbiamo messo in campo una serie di azioni adeguate anche di carattere strutturale: abbiamo lavorato però spesso senza la regia delle aziende sanitarie. Noi come società scientifica abbiamo cercato di dare degli strumenti di collaborazione. Ora arriva una nuova direttiva (la direttiva Ue 1214/2016, ndr) che mette nuovi vincoli ancora più stringenti, come ad esempio quelli legati alle figure professionali: deve esistere formalmente un responsabile della produzione di emocomponenti, deve esistere formalmente un responsabile per il controllo. Rispettare questi vincoli non è sempre facile. Una possibile soluzione è la centralizzazione delle attività produttive secondo standard qualitativi e quantitativi, ma questo però significa che le realtà più piccole vengono lasciate sole. Quello che intendo dire è che la riorganizzazione aziendale è stata fatta senza tenere conto delle prestazioni trasfusionali. E oggi si cercano delle risposte organizzative che vanno oltre la potestà delle realtà trasfusionali stesse.

Perché è accaduto questo?

Perché il sistema sanitario è organizzato su base regionale e le Regioni sono diverse tra di loro. Alcune hanno risposte più concrete di altre, alcune hanno corpus normativi differenti da altre. E però l’autosufficienza ematica è un bisogno nazionale, ciò significa che se ho bisogno di sangue o se ho eccedenza di sangue faccio riferimento a una rete nazionale. Il sistema trasfusionale confligge con le dinamiche aziendalistiche ed economicistiche del contesto che lo circonda. Il sistema sangue ha fatto molto e cerca tutti i giorni di fare molto, ma è quel contesto che rende tutto complicato. Anche di questo parleremo al convegno di Genova, abbiamo organizzato una tavola rotonda che si intitola proprio “Dove va la medicina trasfusionale? Scenari organizzativi e culturali”

Sappiamo della crisi delle donazioni e dell’obiettivo dell’autosufficienza ematica. Non tutti sanno però che per quanto riguarda la lavorazione del plasma collegata al fattore ottavo (FVIII, fattore essenziale della coagulazione del sangue, il cui deficit determina l’insorgenza dell’emofilia A) in Italia esiste una grande disponibilità di plasma che potrebbe coprire fino a un 70% della domanda commerciale di Fattore VIII. Perché accade questo? Non si determina così una spesa che potrebbe essere evitata?

La realtà legata al fattore ottavo è che in Italia c’è un cospicuo uso di ricombinante, vale a dire il prodotto sintetico. Esso viene prescritto molto rispetto al prodotto derivato da plasma umano. In sostanza usiamo il prodotto derivante da plasma umano molto meno rispetto a quanto ne potremmo usare. Superiamo diversi paesi anche europei, come la Francia ad esempio. Il problema che si è posto è quello di trovare soluzioni stabili rispetto a canali di collocazione che nel rispetto della donazione volontaria, anonima e non retribuita non portino lucro ma solo il ristoro dei costi di produzioni. Il Centro nazionale sangue sta portando avanti diverse strade, e la società di medicina trasfusionale sta collaborando. La possibilità è quella di arrivare in paesi dove c’è necessità di tali prodotti e stiamo facendo anche studi clinici specifici.

Ce ne può citare qualcuno?

Per esempio uno studio clinico è quello portato avanti dall’Università di Milano relativo allo sviluppo di alcuni inibitori con plasmaderivati su emofiliaci non ancora trattati. Si tratta di studi importanti che ci aiutano ad approfondire le nostre conoscenze scientifiche.

Esiste un problema di formazione professionale all’interno del mondo trasfusionale?

E’ un tema centrale e duplice. Da un lato perché nel corso di laurea in medicina si parla molto poco della realtà trasfusionale e dall’altro perché non esiste una scuola di specializzazione di medicina trasfusionale. Esiste una specializzazione di ematologia, con caratteristiche più cliniche e una specializzazione in patologia clinica che ha un’impronta meno clinica e più di laboratorio. Abbiamo tentato di spingere per la creazione di una scuola di specializzazione ma diversi fattori rendono tutto molto complicato.

Quali?

Da un lato le normative europee vanno in senso restrittivo ed hanno portato al restringimento del numero di scuole di specializzazione; dall’altro visto che non esiste una scuola di specializzazione, i nostri referenti nel mondo accademico sono pochi e quindi esercitare influenza è molto difficile. Si tratta di un problema serio, non solo per il domani ma già dell’oggi. Tanti concorsi organizzati in realtà geografiche piccole già oggi vanno deserti.

Come pensate di risolvere la questione?

Stiamo provando a far caratterizzare il percorso di studi in ematologia con un’impronta in senso trasfusionale.

A Genova parlerete anche molto quest’anno di donazione e di comunicazione del dono. Da medico cosa pensa si debba fare per comunicare ai giovani la necessità di donare sangue?

Ho due figli quasi maggiorenni e mi rendo conto che il loro mondo è completamente diverso dal nostro. Nel periodo post ‘68 esisteva una dimensione collettiva molto forte ed era facile rispondere alle necessità collettive aderendo al principio della donazione. I ragazzi di oggi sono sensibili a molti temi ma vivono in gruppi piccoli, spesso con relazioni mediate dai social media, è necessario arrivare loro con strategie combinate. E’ nostro compito lavorare assieme alle associazioni, che hanno sicuramente il polso della situazione. Per questo motivo stiamo avviando dei progetti di collaborazione.

Con chi state siglando accordi?

Per esempio con il coordinamento c.i.v.i.s (avis – cri – fidas – fratres, ndr). Un rapporto non formalizzato ancora ma le cui evidenze saranno probabilmente rese pubbliche proprio durante il convegno di Genova. C’è bisogno di un approfondimento dei meccanismi interni alla società che esula dalle nostre competenze, per questo siamo convinti che migliorando la cooperazione con le realtà associative potremmo essere più efficaci.

Che ruolo o responsabilità hanno i media in tale contesto?

Forse siamo noi che ci dobbiamo far sentire di più, dobbiamo sforzarci di suscitare interesse. Siamo noi che dobbiamo far capire che quelli che stiamo affrontando non sono problemi di macchina organizzativa o peggio ancora di corporazione, ma sono problematiche che interessano l’intera collettività. Possono venire a mancare i pilastri su cui si basa il sistema trasfusionale e di ciò ne pagherebbe le conseguenze l’intera società.

Cosa si aspetta dalla tre giorni di Genova?

Mi aspetto una partecipazione intensa, anche numericamente. Oramai non è più il tempo dei congressi oceanici ma mi aspetto una partecipazione importante. Abbiamo avuto una buona risposta dalle aziende che occuperanno gli spazi espositivi e mi aspetto che ci sia una buona risposta in generale. Abbiamo previsto un menù ampio di discussioni sui principali argomenti che riteniamo debbano essere messi sul tappeto: la direttiva europea del 2016, gli emocomponenti per uso non trasfusionale e le donazioni sono solo alcuni di essi. Mi aspetto che ci sia un’appassionata partecipazione anche ai momenti strettamente associativi: metà dei componenti del Consiglio nazionale sarà rinnovata e poi avremo un’assemblea dei soci su alcuni aspetti interni. Insomma, mi aspetto che il momento di riflessione che proponiamo sia appassionato e partecipato.

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