di Francesco Da Prato*
Quel giorno lo ricordo ancora bene: ero curioso, molto emozionato e avevo un po’ paura. No, non dell’ago come forse avrete subito pensato. Di quello che mi sarebbe accaduto dopo. Mi sarei sentito male? Potevo svenire? O avrei avuto solo un piccolo mal di testa? Anche per questo motivo non andai solo all’appuntamento: a varcare la soglia dell’ospedale di Livorno c’era con me Andrea, il mio amico di sempre, compagno di classe e di avventure. L’avventura che iniziammo assieme quella mattina era legata a un regalo. Il regalo del nostro sangue.
Avevo 18 anni e, devo dire la verità, iniziai un po’ per gioco un po’ per caso. Al tempo studiavo al collegio dei Salesiani di Livorno, volevo ottenere il diploma di odontotecnico. Volontari dell’Avis locale vennero a raccontarci a scuola cosa significasse diventare donatori e quanto fosse importante. Nei loro discorsi non tralasciarono un particolare che per ragazzi di quell’età come noi risultò fondamentale: se avessimo donato sangue avremmo avuto diritto a un giorno di riposo dalla scuola. I calcoli erano presto fatti: se avessi donato di sabato, avrei potuto prendere il treno e tornare a casa dai miei a Barga, in Garfagnana. Dieci minuti e qualche goccia di sangue in cambio di un intero week end! Non me lo feci dire due volte. E convinsi Andrea.
Dal quel sabato del lontano ’87 donai ancora. Un paio di volte, poi la scuola finì. Feci una pausa. Breve però. Donare mi faceva sentire bene. Avevo l’impressione, scuola o non scuola, di essere utile, di fare qualcosa per cui vale la pena vivere. Non andai più a Livorno, non aveva più senso farlo lì, ma iniziai nella mia città natale, Barga, iscrivendomi al gruppo Fratres.
Anche se oramai da tanti anni vivo a Lucca, continuo ad andare all’ospedale di Barga. Perché tornare lì per me è tornare a salutare vecchi amici. Inoltre mi sento di fare qualcosa per mantenere quel centro trasfusionale attivo: i centri di quel tipo restano aperti anche grazie a noi donatori. Insomma, quando vado a donare, ancora oggi mi sento proprio bene. Di spirito intendo. Anche fisicamente, certo, ma per questo mi ci è voluto un po’ di più. Perché? Perché una volta, donato il sangue e tornato a casa, svenni. Nulla di grave, ben inteso. Ma la volta successiva raccontai tutto ai medici. La loro risposta fu tranquillizzante. Forse non molti sanno infatti, e all’epoca non lo sapevo neanche io, che oltre alla donazione di sangue “intero” si può fare la donazione soltanto di plasma. E così mi dissero di fare. Trovarono infatti che i valori del ferro nel mio sangue non erano proprio buoni e per evitare problemi mi proposero un’operazione un po’ più lunga. Prelevarono il sangue e con delle apparecchiature ne separarono le componenti ematiche, trattenendo quelle di cui avevano bisogno, mentre i restanti elementi me li restituirono usando sempre lo stesso accesso venoso. Cinquanta minuti in tutto. Una modalità che sul mio organismo ha un impatto minore. E che quindi non ho più abbandonato.
Sono oramai trent’anni che dono plasma: a novembre scorso ho ricevuto addirittura una medaglia d’oro per aver raggiunto le 50 donazioni. Ne sono fiero. Mi sento bene. Perché non provate a sentirvi bene anche voi?
*Francesco Da Prato è product manager a Lucca
I donatori raccontano è lo spazio riservato alle esperienze e alle testimonianze dei volontari italiani del sangue e del plasma. Inviaci la tua storia e, se vuoi, anche una tua foto all’indirizzo email redazione@donatorih24.it