Vendere il plasma per fare shopping
Perché l’Italia dice no al modello Usa

2019-05-28T16:36:00+02:00 28 Maggio 2019|Mondo|
Una sacca di plasma di Emiliano Magistri

Due donazioni di plasma a settimana per garantirsi soldi extra e soddisfare così la sua mania dello shopping. La storia arriva dallo Utah, negli Stati Uniti. Protagonista è Carisa Baker, studentessa ventenne. In un anno ha guadagnato circa 3 mila dollari vendendo il suo plasma e arrotondando lo stipendio da baby sitter.

Motivo della scelta, come racconta lei stessa alla rivista statunitense Metro, “avere un po’ più di soldi extra da poter spendere per comprare vestiti. E poi, donare il plasma, mi fa stare bene perché so che, così facendo, posso aiutare gli altri“. 20 dollari per la prima donazione e 50 per la seconda, questa la somma che la giovane ricaverebbe dalla sua scelta.

Una scelta che, ancora una volta, ricalca la differenza con il nostro Paese, dove la donazione (plasma o sangue intero che sia) è completamente gratuita e volontaria. Negli Stati Uniti, invece, se per il sangue non è previsto alcun compenso, per il plasma sì.

Quella della tutela del plasma come prodotto etico è la sfida rilanciata dal presidente di Avis Nazionale, Gianpietro Briola: “Grazie alla sensibilità dei volontari, raccogliamo il 70% di immunoglobuline necessarie alla lavorazione e produzione di farmaci per la cura di malattie rare. A oggi a livello mondiale sono nove le aziende che producono questo tipo di medicinali e tutte si trovano sul territorio degli Stati Uniti (ad eccezione dell’italiana Kedrionndr) – spiega -: se Paesi in forte espansione dovessero entrare nel mercato farmaceutico europeo e occidentale in genere, come la Cina o all’India, ad esempio, avanzando offerte economiche più alte rispetto a quelle di altre nazioni, potremmo non avere la forza di affrontare e sopportare una crisi di questo tipo. L’autosufficienza di plasmaderivati ci permetterebbe anche di alleggerire i costi di gestione delle aziende sanitarie“.