Tumori del sangue, così la leucemia sfugge al sistema immunitario

2019-04-17T16:05:57+02:00 17 Aprile 2019|Primo Piano|
di Emiliano Magistri

Incentivare un approccio personalizzato al sopraggiungere di una recidiva e accelerare i processi per arrivare a una diagnosi sempre più precoce della malattia. Sono gli obiettivi che si sono prefissati i ricercatori dell’Irccs ospedale San Raffaele di Milano a seguito degli studi sulle cellule tumorali e i linfociti T che cercano di sconfiggerle prima e dopo la terapia. È la leucemia la forma che più di ogni altra riesce a scampare al nostro sistema immunitario.

Pubblicato sulle riviste Nature Medicine e Nature Communications e condotto grazie al sostegno dell’Airc (Associazione italiana per la ricerca sul cancro), lo studio ha permesso di individuare come il tumore riesca a sopravvivere alla cosiddetta pressione immunologica del trapianto. Una delle terapie più efficaci per intervenire sulla leucemia mieloide acuta (Aml) è infatti rappresentata dal trapianto di midollo da donatore, in virtù dell’attività antitumorale del sistema immunitario che viene trasferito sul paziente ricevente. Tuttavia, al sopraggiungere della recidiva, è allora che diventa necessario utilizzare altri sistemi.

Spesso, come già dimostrato nel 2009, è una mutazione genetica del dna a “salvare” le cellule leucemiche, riuscendo a cambiare le molecole Hla (il sistema dell’antigene leucocitario umano, cioè l’insieme dei geni che codificano le proteine sulla superficie delle cellule che sono responsabili per la regolazione del nostro sistema immunitario) e rendendole simili alle cellule del sistema immunitario trapiantato. Una risposta che, ogni volta, porta i medici a effettuare un secondo trapianto da donatore diverso, ma che non riesce a giustificare le recidive che si verificano.

Oggi, grazie agli studi effettuati dal San Raffaele, viene dimostrato che le cellule tumorali sono in grado di trovare altre “soluzioni” per salvarsi: una che prevede la riduzione dell’espressione delle molecole hla sulla superficie, l’altra che porta ad aumentare la presenza di recettori immunosoppressori in grado di frenare l’attività dei linfociti fino a fermare del tutto la risposta immunitaria. Questo cosa comporta? Come spiega il dottor Luca Vago, a capo del tema di ricerca, “nel primo caso lo stato infiammatorio che si viene a creare può essere controllato così da innalzare il livello di interferone (le proteine prodotte dalle cellule per difendersi dall’invasione di un virus, ndr) nel sangue. Nel secondo, quando la risposta immunitaria, cioè l’attività dei linfociti T, viene fermata dal tumore, si possono somministrare farmaci in grado di farli riprendere a lavorare”.