Individuare in anticipo il morbo di Alzheimer, prima che si manifestino i sintomi iniziali, grazie a una proteina presente nel sangue. Il risultato della ricerca effettuata da un’équipe composta da studiosi dell’università di Washington, del centro tedesco per le malattie neurodegenerative (Dzne), dell’istituto Hertie per la ricerca clinica sul cervello (Hih) e dell’università di Tubinga, apre nuovi scenari nel campo delle indagini diagnostiche sulle forme di demenza. La proteina in questione è una proteina filamentosa, denominata Nfl, che si trova all’interno dei neuroni e che, in caso di danno o morte delle cellule nervose, si riversa nel liquido cerebrospinale e poi nel sangue. La sua alterazione rappresenta le prime avvisaglie dell’Alzheimer. Come questa ricerca possa modificare il lavoro e le terapie anche qui in Italia, lo ha spiegato a DonatoriH24 la dottoressa Roberta Ghidoni (nella foto), Deputy scientific director head of molecular markers laboratory, dell’Irccs Fatebenefratelli di Brescia.
Dottoressa, proviamo a spiegare nel dettaglio quali novità comporta questo tipo di ricerca
Intanto bisogna specificare che questa proteina era già conosciuta. In passato era stato dimostrato come, anche per patologie come la Sla o la demenza associata all’Hiv, si verificasse una sua alterazione: è un po’ come fosse l’impalcatura dei nostri neuroni, infatti si muove ogni volta in cui si riscontra un problema neuronale, per questo viene definita marcatore di danno.
Quindi spiegato così, è come se, per gli addetti ai lavori, non ci fosse nulla di nuovo
In realtà è a livello ereditario che questa scoperta fa la differenza. Mancava infatti uno studio longitudinale che studiasse l’andamento di questa proteina in fase presintomatica. La ricerca è estremamente utile per seguire la variazione della proteina nel tempo, purché gli esami vengano ripetuti più volte nel corso dell’anno: anche perché al momento non esiste un valore assoluto di riferimento in base al quale stabilire se ci sono o meno le avvisaglie del morbo di Alzheimer. Diversamente, più variazioni della Nfl si registrano nel corso di un determinato periodo, maggiore è la possibilità di individuare la demenza.
La ricerca ha coinvolto oltre 400 persone: potrebbe rappresentare un numero troppo ridotto?
Per un’indagine di questo tipo assolutamente no. Si tratta di un numero estremamente robusto e proprio per questo motivo lo studio ha suscitato l’interesse delle cronache. I pazienti che sono stati valutati sono portatori di Alzheimer familiare, cioè persone con una predisposizione ben precisa e, in particolare, alle prese con mutazioni e insorgenza di malattia estremamente precoci, ecco perché il dato è più che attendibile. Poi che alcune modifiche a livello cerebrale possano iniziare a manifestarsi con 15-20 anni di anticipo rispetto alla patologia conclamata, purtroppo non è una novità.
In base a questo, quindi, la ricerca sembrerebbe efficace solo per indagini a livello genetico
Al momento sì, per questo è fondamentale che i familiari della persona affetta da Alzheimer, ma anche da altre forme di demenza, si mettano a disposizione della scienza per consentirci di effettuare più indagini possibili. Bisogna capire che l’alterazione della proteina filamentosa non è l’unico segnale legato al sopraggiungere del morbo.
Facciamo un passo indietro: chi dovesse leggere i risultati di questa ricerca e volesse capire se è soggetto all’Alzheimer cosa dovrebbe fare allora?
Dovrebbe effettuare un insieme di esami che includano anche la proteina filamentosa, non solo quella. Quello che non è stato spiegato, infatti, è che la Nfl è un biomarcatore, cioè un frammento del Dna causa di malattia o di una determinata predisposizione patologica. Come tutti i biomarcatori non può mai essere preso in esame da solo, ma insieme ad altri. È utile a misurare la biodegenerazione e il livello di avanzamento della demenza, ma la differenza la fa a livello familiare perché dimostra l’affacciarsi dell’Alzheimer nei casi in cui sono stati già effettuati test genetici.
Il Rapporto Mondiale Alzheimer 2018 dà una previsione futura sul numero dei malati di Alzheimer in Italia poco incoraggiante: quanto questa ricerca può essere d’aiuto?
A livello di terapia, al momento, molto poco perché purtroppo non esiste un modo per curare questa patologia. Tuttavia, è importantissimo sensibilizzare le persone alla ricerca genetica, perché è da lì che questo studio può confermarsi vincente, unendone anche altri sul deposito di amiloidosi cerebrale in assenza di sintomi e proteine filamentose. Si può fare anche qui in Italia, ma con estrema cautela, perché ogni volta in cui viene presentata una ricerca di questo tipo non bisogna farla passare come un gioco di prestigio. La valutazione clinica deve essere combinata all’indagine, così come devono essere associati più biomarcatori, per non confondere tra loro le patologie che hanno in comune gli stessi geni.